Il caso Rider: dalla Gig Economy ai diritti del lavoratore
La Gig Economy: un modello basato sul lavoro "on demand"
L’avvento della quarta rivoluzione industriale ha determinato un profondo cambiamento nei processi di produzione e commercializzazione di beni e servizi, generando nuovi modelli di business e modificando le modalità di relazione tra mercati e consumatori. Una delle espressioni di questi cambiamenti è rappresentata dalla gig economy, che indica un nuovo modello economico basato sul lavoro “on demand”, ovvero solo quando c’è richiesta di propri servizi, prodotti o competenze, e dove la domanda e l’offerta vengono coordinate da piattaforme digitali o app. Volendo, dunque, utilizzare una definizione data da Claudio Maria Perfetto: la gig economy è una forma di lavoro organizzato mediante piattaforme digitali[1]. L’evoluzione del fenomeno, grazie all’avvento delle nuove tecnologie, ha determinato negli ultimi 10 anni un’espansione sul mercato di tutte quelle società che utilizzano le piattaforme digitali per l’erogazione di propri beni o servizi, tra cui Amazon, Uber, Jeasteat, Foodelivey, Airbnb, e molte altre. Società che oltre ad offrire servizi diversi, ognuna nel proprio settore di appartenenza, utilizzano anche modalità di organizzazione differenti. Dunque, per chiarezza espositiva e ai fini di una semplificazione del fenomeno, si può suddividere la gig economy in tre macro-categorie[2]:
- Lavoro on demand tramite app, per lo più location-based, nel quale rientrano tutti i servizi di consegna a domicilio, trasporto di beni o persone, babysitter e altre attività manuali, la cui prestazione lavorativa è svolta in una determinata area o in un luogo preciso.
- Crowdwork, costituito da attività web-based, nella quale rientrano tutte le attività “intellettuali” offerte dai professionisti a fronte di una richiesta intermediata da una piattaforma. Si tratta ad esempio di programmatori, informatici, designer che possono eseguire la prestazione richiesta via web, da qualsiasi luogo.
- Assent rental, servizio che prevede l'affitto o il noleggio di beni di proprietà, come case o auto, nelle quali operano società come Airbnb o BlaBlaCar. In questa ultima categoria, alcuni considerano anche la sharing economy che tuttavia si differenzia proprio per l'aspetto di pura condivisione.
Dunque, la facile fruibilità e velocità con cui vengono gestite, attraverso piattaforme digitali, domanda e offerta, ha determinato, come già anticipato, un’evoluzione di questo nuovo modello di business. Molti dei maggiori players che oggi operano su questo mercato infatti, sono nati qualche anno fa con assetti e strategie molto differenti e grazie all’evoluzione digitale e all’introduzione delle app, hanno potuto facilitare la maggiore fruibilità da parte dei consumatori dei servizi offerti. Contestualmente è aumentato il giro d'affari, le aziende ed il numero di lavoratori coinvolti. La rivista Forbes, per esempio, ha dichiarato come nel 2018 almeno 57 milioni di americani, circa un terzo della forza lavoro, avessero un ruolo in questo sistema, per lo più inteso come secondo lavoro o prestazione occasionale[3]. Anche in Europa la gig economy ha preso piede, specie nel Regno Unito nel quale si è registrato il più alto livello di utilizzo di piattaforme digitali, in linea con gli Stati Uniti d’America. Tra gli altri Paesi europei invece, l'Italia ha segnato un lieve ritardo nell'utilizzo delle piattaforme digitali, eccetto che per un settore: il food delivery. Secondo alcune stime dal 2011 al 2017, il fenomeno in Italia ha visto una crescita del fatturato da qualche migliaia di euro a circa 50 milioni, di cui 40 milioni registrati solo nel food delivery, ovvero un aumento del 250% annuo[4]. Allo stesso tempo la richiesta di servizi di food delivery da parte dei consumatori italiani è passata dal 2% al 20%, con conseguente aumento del numero dei lavoratori coinvolti[5]. Numeri importanti che, a fronte di un cambiamento delle dinamiche del mercato e dell’organizzazione del lavoro (tramite algoritmi), hanno guadagnato l'attenzione degli organi istituzionali e politici, specie con riferimento all’ inquadramento contrattuale dei lavoratori coinvolti.
Difatti, a seguito dello sviluppo del fenomeno del food delivery, si è sviluppato nel nostro paese un acceso dibattito circa l’adeguatezza dell’inquadramento e delle tutele riconosciute ai c.d. rider. Tutele fino a poco tempo fa pressoché inesistenti, non essendoci una vera e propria cornice normativa di riferimento che permettesse loro di ricevere lo “status” di lavoratori subordinati con le conseguenti garanzie assicurative e retributive del caso. Nell’eseguire la prestazione lavorativa, questi fattorini, infatti, dovevano correre da una parte all’altra della città, in bici o in motorino, per effettuare le consegne entro tempi ben determinati, incuranti di pioggia o vento, con a loro carico il rischio di infortunio e senza differenze retributive tra festivi, weekend e orari notturni. Venivano di fatto inquadrati come lavoratori “autonomi”, principalmente con contratti di co.co.co., anche se non erano loro a concordare con l’azienda le modalità con cui dovevano svolgere l’attività. I rider, dunque, si trovavano ad operare in un “limbo” tra autonomia e subordinazione, avvertendo sempre di più l’esigenza di maggiori tutele contrattuali. Invero, per evitare fenomeni elusivi della subordinazione, il legislatore già nel 2015 con il D.Lgs n. 81, c.d. Jobs Act, aveva previsto che dovesse essere applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato per tutte quelle collaborazioni consistenti in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità fossero etero-organizzate dal committente. Di fatto, però, in assenza di pronunce giurisprudenziali e di una specifica normativa sul punto, i rider continuavano ad essere considerati come lavoratori autonomi, invocando un immediato intervento legislativo in grado di fornire un quadro più preciso. Prima ancora del legislatore, però, è stata la giurisprudenza a pronunciarsi sul punto. Nota, soprattutto per l’interesse mediatico suscitato, è stata la tortuosa vicenda giudiziaria che ha investito la popolare azienda di consegna di pasti a domicilio Foodora. Nel luglio 2017 un gruppo di ex rider, cessata la collaborazione con l’anzidetta società di food delivery, chiesero al Tribunale di Torino l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro. Il Tribunale, con sentenza del 7.5.2018[6], respingeva la richiesta dei ricorrenti, escludendo la subordinazione ex art. 2094 c.c., poiché in base alle modalità con cui veniva svolta la prestazione non vi era subordinazione del dipendente al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro. La vertenza veniva allora portata davanti alla Corte d’Appello di Torino che con sentenza del 4/2/2019[7], qualificava le collaborazione dei rider come un “tertium genus”, vale a dire come collaborazioni autonome ma etero-organizzate, a cui andavano applicati i precetti del lavoro subordinato secondo quanto previsto dall’art. 2 del predetto decreto. Dunque, secondo la Corte, ai rider potevano applicarsi, in virtù della citata normativa, le norme in materia di retribuzione diretta e differita, di ferie, igiene e sicurezza, previdenza ma non le regole sul licenziamento. A quel punto Foodora impugnò la sentenza davanti alla Corte di Cassazione. La Suprema Corte con recente sentenza n. 1663/2020[8], ha riconosciuto ai rider le garanzie proprie del lavoro subordinato ex art. 2 D.lgs. n. 81 /2015. Seguendo il ragionamento della Corte i rider, pur essendo inquadrati come lavoratori autonomi, mantenevano l’autonomia solo nella fase iniziale del rapporto e non anche in quella successiva dell’esecuzione, poiché in quest’ultima fase era l'app e non il collaboratore a scegliere dove, quando e come eseguire la prestazione. E’ dunque questa la differenza con le collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 409 cpc, dove sono parimenti presenti elementi di coordinamento tra la prestazione del collaboratore e quella del committente, ma, in questo caso, vengono stabiliti di comune accordo tra le parti. Nel caso, invece, delle collaborazioni di cui all’art. 2. del Jobs Act le modalità di coordinamento sono imposte unilateralmente dal committente e questo vale ad applicare la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
Dunque, gli ermellini hanno stabilito come, ai fini della decisione, non fosse strettamente necessario l’inquadramento contrattuale dato ai rider, bastando per l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato la sussistenza delle condizioni individuate dal legislatore all’art. 2 del D.lgs n. 81 del 2015, ovvero personalità, continuità ed etero-organizzazione. A disciplinare il fenomeno in via generale, è invece intervenuto di recente il legislatore che con legge n. 128 del 2019 di conversione del decreto-legge n. 101/2019, ha dettato una serie di regole per la tutela di questa categoria di lavoratori. Innanzitutto, con riferimento alle collaborazioni etero-organizzate, la citata legge ha stabilito che quest’ultime, ai fini dell’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, ex art. 2 D.lgs. n. 81 del 2015, dovessero concretarsi in prestazioni di lavoro non più “prevalentemente” ma “esclusivamente” personali. Inoltre, ha esteso la disciplina di cui all’art. 2 del Jobs Act anche alle prestazioni di lavoro le cui modalità di esecuzione sono organizzate mediante piattaforme digitali, ampliando così l’area di tutela alle collaborazioni etero-organizzate. In più, con l’introduzione del capo V bis nel corpo del Job Act, il legislatore ha predisposto una serie di livelli minimi di tutela per tutti quei lavoratori che svolgono attività di consegna per conto altrui, attraverso l’utilizzo di piattaforme digitali. Le tutele minime che vengono predisposte riguardano il compenso, le informazioni obbligatorie, il divieto di discriminazione, la protezione dei dati personali e l’assicurazione contro gli infortuni e la sicurezza sul lavoro. La situazione tuttavia non può ritenersi definita, in quanto è probabile che verranno presto delineate dalle parti sociali maggiormente rappresentative a livello nazionale soluzioni di “compromesso”, ricorrendo così alla deroga che la citata legge riserva alla contrattazione collettiva.
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[1] Editore Aracne, L'economista in camice, Claudio Maria Perfetto, Febbraio 2019
[2] Inps, XVII Rapporto Annuale, Luglio 2018
[3] www.forbes.com 57 Million U.S. Workers Are Part Of The Gig Economy, TJ McCue, Agosto 2018
[4] Banca d'Italia, Questioni di Economia e Finanza, Cristina Giorgiantonio e Lucia Rizzica, Dicembre 2018
[5] Ibidem
[6] Tribunale di Torino, sent. del 7/5/2018 n. 778
[7] Corte Appello di Torino, sent. del 4/2/2019 n. 26
[8] Corte di Cass., sez. lavoro, sent. del 24/01/2020 n. 1663
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Altre fonti:
- Decreto legislativo n. 81/2015
- Legge n. 128 del 2019 di conversione del decreto-legge n. 101/2019
- “Riders Atto Terzo: la decisione della Cassazione” di Olimpio Stucchi e Marilena Cartabia, 27/01/2020- dal portale “Diritto 24” de “Il Sole 24 ore”.
- “Gig Economy” dossier del 9 luglio 2018 a cura di Simonetta De Fazi, Osservatorio Giuridico delle ACLI Roberta Piano, Noviter Srl. https://acli.azureedge.net/wp-content/uploads/2018/08/DOSSIER-GIG-ECONOMY.pdf
A cura di G. Sacco Taz e A. Girardi (partecipanti all’Executive Master in Direzione del Personale)
Ultima modifica il 26/03/2020
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