Il giudizio di confondibilità fra i marchi
A cura di E. Brambilla e G. Iovino (partecipanti in area Legale)
Al fine di contraddistinguere, differenziare ed identificare i propri prodotti o servizi da quelli dei concorrenti, l’imprenditore può utilizzare il segno distintivo denominato “marchio”. Tale segno ha la funzione di consentire al pubblico di riconoscere con facilità i prodotti o i servizi provenienti da un determinato imprenditore e di selezionare di conseguenza tra i molti prodotti similari quello che ritiene migliore.
Il marchio, al fine di garantire nel concreto un’effettiva tutela all’imprenditore, in relazione ai servizi da lui offerti e i prodotti venduti sul mercato, deve essere registrato. Una volta registrato, ai sensi dell’art. 2569 codice civile, il marchio permette l’uso esclusivo dello stesso da parte del soggetto registrante e garantisce che il suo utilizzo venga limitato e ristretto escludendo altri imprenditori dalla possibilità di impiegarlo. Anche il Decreto Legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, (detto anche "codice proprietà industriale"), all'art. 20, comma 1, lett.b) prevede infatti "che il titolare di un marchio registrato possa vietare a terzi l'uso, senza il proprio consenso, nell'attività economica, di un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini", laddove "a causa della identità o somiglianza fra i segni e dell'identità o affinità fra i prodotti o servizi" possa determinarsi "un rischio di confusione per il pubblico", che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni".
Il medesimo codice all’articolo 7 enuncia quali sono i segni che possono essere registrati come marchi d’impresa. In tal senso infatti “possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese”.
Inoltre, per poter essere registrato, il marchio deve possedere una serie di requisiti sostanziali previsti dallo stesso codice di proprietà industriale, quali:
- novità
- capacità distintiva
- liceità
- veridicità
Tali requisiti devono sussistere in via cumulativa e non alternativa tra loro, infatti, la mancanza di uno di questi elementi costituisce un ostacolo alla corretta registrazione e conseguente tutela, del marchio stesso.
L’elemento essenziale che maggiormente viene in rilievo nel giudizio di confondibilità, è la capacità distintiva, ossia la capacità del marchio di far associare ai consumatori un determinato prodotto o servizio specifico e ben determinato, facendo sì che lo stesso non venga invece ricollegato ad una categoria generica di prodotti simili tra loro. La capacità distintiva si delinea quindi come elemento fondamentale che deve caratterizzare un marchio, al fine di permettere al consumatore di identificare in modo immediato l’impresa che offre quel determinato prodotto e/o le specifiche caratteristiche di quest’ultimo, facilitando e semplificando nel contempo le scelte che l’utente regolarmente pone in essere acquistando beni e servizi sul mercato.
Il marchio quindi è in grado di evocare nel consumatore un messaggio che l’imprenditore che lo ha registrato vuole trasmettere agli utenti, fornendo così un insieme di elementi informativi capaci di identificare il prodotto, le sue specifiche caratteristiche, l’origine/provenienza o il suo produttore. Tanto per cui il marchio è in grado di creare nel consumatore una legittima aspettativa riguardante le suindicate caratteristiche.
La stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato infatti che “ la funzione essenziale del marchio consiste nel garantire al consumatore o all’utilizzatore finale l’identità di origine del prodotto o del servizio contrassegnato consentendo loro di distinguere senza confusione possibile questo prodotto o questo servizio da quelli di provenienza diversa” (Corte di Giustizia UE, Caso Google AdWords, 23 marzo 2010, European Court Reports 2010 I-02417— Cause riunite da C-236/08 A C-238/08).
Sul giudizio di confondibilità tra i marchi si è espressa anche negli ultimi anni la giurisprudenza italiana, delineando quali sono i criteri, le ragioni e le situazioni che possono trarre in inganno e confondere il consumatore, oltre al giudizio che il giudice chiamato a valutare due marchi a confronto è tenuto a seguire.
La Corte di Cassazione con la sentenza del 13 aprile 2015, n. 7414 ha statuito che “L'affinità tra prodotti, ai fini della tutela contro la contraffazione dei relativi marchi, rilevante ai fini del giudizio di confondibilità tra gli stessi, postula che i beni o i prodotti siano ricercati ed acquistati dal pubblico in forza di motivazioni identiche, o strettamente correlate, tali per cui l'affinità funzionale tra essi esistente induca il consumatore a ritenere che provengano dalla medesima fonte produttiva, indipendentemente dall'eventuale uniformità dei canali di commercializzazione”.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione impugnata che aveva ritenuto sussistente la confondibilità tra i marchi apposti su bottiglie di olio e vino per il fatto che la loro produzione e commercializzazione è comunemente abbinata, così che il consumatore può essere ragionevolmente indotto a credere, che bottiglie di olio e vino riportanti il medesimo marchio possano provenire dallo stesso produttore. La valutazione di confondibilità rispetto a un determinato marchio deve essere ancorata alla prospettiva che il consumatore ha nell’acquistare un determinato prodotto e gli elementi che lo stesso percepisce attraverso il messaggio comunicato dal marchio. Tale affermazione è stata ribadita dalla Corte di Cassazione, la quale, richiamando anche precedenti sentenze in materia, ha dichiarato che “i criteri che devono utilizzarsi nel giudizio di confondibilità del marchio, precisando che, in particolare, la valutazione di confondibilità deve realizzarsi avendo a mente la prospettiva del consumatore e deve essere ancorata agli elementi concreti dei marchi come percepiti dagli utenti e dai consumatori”. Altresì la stessa Corte ha enunciato che i prodotti di cui si parla, ai fini del giudizio di confondibilità tra marchi, “devono essere ricercati ed acquistati dal pubblico in forza di motivazioni identiche o quanto meno tra loro strettamente correlate, tali per cui l'affinità funzionale esistente tra quei beni o prodotti e tra i relativi settori merceologici induca il consumatore naturalmente a ritenere che essi provengono dalla medesima fonte produttiva, indipendentemente dal dato meramente estrinseco costituito dall'eventuale identità dei canali di commercializzazione”. La Corte tuttavia ha sottolineato che, ai fini della confondibilità, “le esigenze che spingono all'acquisto dei prodotti di cui si afferma l'affinità merceologica non può tuttavia essere ancorata a criteri eccessivamente generici (quali l'esigenza di vestirsi, sfamarsi, dissetarsi, leggere, etc.), rischiandosi altrimenti di smarrire il nesso che, anche secondo nozioni di comune esperienza, deve potersi presumere esistente tra l'identità dei bisogni cui quei beni sono preordinati e l'unicità della loro fonte di provenienza, che costituisce la vera ragione di tutela del marchio”.
Anche il Tribunale di Bologna si è espresso nel 2017 sulla valutazione che deve essere fatta in relazione alla possibilità di confondere più prodotti a causa di marchi che, per la loro affinità, possono indurre il consumatore medio alla confusione. Infatti “la valutazione del rischio di confusione tra due marchi non deve consistere in un attento esame comparativo, attraverso la valutazione separata di ogni singolo elemento, ma va condotta in via sintetica e unitaria secondo un'impressione d'insieme, mediante un apprezzamento complessivo che tenga conto degli elementi salienti, facendo altresì riferimento alla normale avvedutezza dei consumatori ed in particolare alla circostanza che essi eseguiranno il confronto tra il marchio che vedono al momento di effettuare una scelta commerciale e il segno distintivo che ricordano, cosicché la possibilità di confusione sarà più alta di quanto non sarebbe se essi si trovassero di fronte contemporaneamente ai due segni”. Nel caso di specie il Tribunale ha affrontato il caso in cui due imprenditori che svolgevano la medesima attività commerciale, utilizzavano marchi rispetto ai quali la differenziazione era del tutto marginale mentre prevalevano somiglianze ed affinità, tali per cui il consumatore medio era indotto a confondere i medesimi ed era portato a ritenere che i servizi erogati dai due diversi imprenditori in realtà provenissero dalla stessa impresa o quantomeno da imprese economicamente collegate.
Anche il Tribunale, sez. IV, di Bari, nella recente sentenza del 17 maggio 2018, n. 2181, sulla scia della precedente giurisprudenza, ha affermato che l’apprezzamento che deve essere fatto ai fini della confondibilità tra marchi deve tenere conto “di tutte le caratteristiche salienti, compresi gli effetti visivi o grafici e acustici o fonetici delle espressioni usate in relazione al normale grado di percezione delle persone alle quali il prodotto è destinato”.
La stessa Corte giustizia UE, sez. III, il 10 luglio del 2014, con sentenza n. 421, aveva dichiarato, anticipando la giurisprudenza italiana, che il carattere distintivo del marchio deve essere valutato nel concreto in relazione ai prodotti e i servizi sui quali è apposto ed inoltre deve essere presa in considerazione anche la percezione che sorge ragionevolmente in capo al consumatore medio di quei determinati prodotti o servizi.
Come anche nuovamente statuito dalla Corte di Cassazione, I sez., con la sentenza n. 9769 del 19 aprile del 2018, sulla scia dell’ormai consolidata giurisprudenza, l’analisi che il giudice è chiamato ad effettuare nel giudizio di confondibilità tra due marchi deve tener conto della visione globale di quelli che sono gli elementi di dettaglio dei marchi, calando tale analisi all’interno della percezione che il consumatore medio, con diligenza ed avvedutezza, è indotto ad avere. Si rileva come oggi il giudizio sulla confondibilità tra due marchi sia divenuta di grande rilievo non solo a livello italiano, come confermano le numerose pronunce della Corte di Cassazione sul punto, ma anche a livello europeo.
Recentissimamente infatti la Corte di Giustizia Europea, in relazione all’opposizione alla registrazione a livello europeo del marchio di una delle più famose blogger italiane ormai di fama internazionale, si è trovata a dover decidere in merito alla presunta identicità tra due marchi a confronto. La Corte, nell’iter logico seguito ai fini della decisione, riafferma che il metodo generale che deve essere adottato, al fine di valutare la somiglianza tra due segni a confronto tra loro, è quello che permette di tenere in considerazione gli elementi distintivi di rilievo che caratterizzano in particolare i segni sia a livello visivo, fonetico che concettuale, i quali vengono percepiti nel loro insieme dal consumatore. Tanto per cui escludeva la confondibilità tra i segni a confronto in quanto quello della blogger italiana si caratterizza, dal punto di vista visivo, con un elemento figurativo dal contenuto semantico preciso, tale da non poter far sorgere alcun rischio di confusione tra i due marchi. Infatti “solo perché i marchi contengono lo stesso nome femminile, ciò non significa che i segni siano concettualmente simili. Infatti, il marchio richiesto identifica e contraddistingue una determinata persona, mentre il marchio anteriore si riferisce solo a un generico nome femminile. Ne consegue che non sussiste alcuna somiglianza concettuale tra “CHIARA” e “CHIARA FERRAGNI”. Questa conclusione è ulteriormente rafforzata dalla presenza, nel secondo segno, di un elemento figurativo (l’occhio) con un “contenuto semantico molto preciso“, che non può essere rinvenuto nel marchio preesistente” (Corte di Giustizia Unione Europea, 8.2.2019, causa T 647/17).
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Bibliografia
- Manuale di diritto industriale, VII edizione, parte II,“i segni distintivi”, Adriano Vanzetti e Vincenzo Di Cataldo, Giuffré editore;
- Guida alla tutela dei marchi e dei brevetti, camera di commercio industria artigianato e agricoltura di Cuneo, A cura dell’ufficio marchi brevetti e strumentazione informatica per le imprese della Camera di commercio di Cuneo, edizione 2013;
- Rivista di diritto industriale 2015,2,II, 154, nota di Berti Arnoaldi;
- Note a sentenza Cass. Civile, I sezione, 24 giugno 2016, sentenza n. 13170, Diritto e Giustizia, fasc. 30, 2016, pag. 16, autore Gianluca Tarantino “Giudizio di confondibilità: in concreto e nella prospettiva del consumatore”;
- Direttiva 2008/95 CE, Parlamento Europeo e Consiglio del 22.10.2008, Gazzetta Ufficiale Europea.
Pronunce
- Corte di Giustizia UE, Caso Google AdWords, 23 marzo 2010; -Corte giustizia UE, sez. III, il 10 luglio del 2014, con sentenza n. 421.
- Corte giustizia UE, sez. III, il 10 luglio del 2014, con sentenza n. 421
- Corte di Cassazione con la sentenza del 13 aprile 2015, n. 7414.
- Cass. Civile, I sezione, 24 giugno 2016, sentenza n. 13170.
- Tribunale Bologna 19.10.2017.
- Tribunale, sez. IV, di Bari, nella recente sentenza del 17 maggio 2018, n. 218.
- Corte di Cassazione, I sez., con la sentenza n. 9769 del 19 aprile del 2018.
- Corte di Giustizia Unione Europea, 8.2.2019, causa T 647/17.
Articolo a cura di Elisa Brambilla e Giada Iovino (partecipanti all'Executive Master in Giurista d'Impresa - MI)
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