Impresa alimentare e compliance: la (possibile) riforma dei reati agroalimentari e profili di responsabilità dell’ente
A cura di F. Bruno, Partner at B-Hse law
Sommario:
- Introduzione: la rilevanza dell’industria del food per l’economia italiana.
- Le modifiche la legge n. 283/1962 che assumerà un ruolo centrale (quasi) esclusivamente per le contravvenzioni.
- Il proposto spostamento del baricentro dei reati agroalimentari al codice penale.
- La (potenziale) novella del d.lgs. 231/2001 e il modello “speciale” per le imprese agroalimentari.
- Considerazioni conclusive
1. E’ attualmente in discussione al Senato il disegno di legge governativo (DDL S n. 283) rubricato “Nuove norme in materia di reati agroalimentari”. Non ne conosciamo oggi la sorte, e tantomeno è possibile azzardare previsioni, ma la sua introduzione sarebbe talmente impattante per la governance e la gestione del rischio, che appare utile già iniziare a riflettere su nuove (o, quantomeno, diverse nella consistenza giuridica) tipologie di responsabilità delle imprese, anche ai sensi del noto decreto 231 (il d.lgs 231/2001).
Innanzitutto, rammentiamo sinteticamente il contesto economico in cui si inserisce la proposta di riforma. Il settore alimentare, insieme al fashion e alla meccanica, integra la vera spinta propulsiva del nostro Paese. La trasformazione alimentare rappresenta il primo settore industriale d’Europa, con oltre 1.050 miliardi di euro di fatturato e 4,3 milioni di addetti. In Italia, la trasformazione alimentare costituisce la seconda “industria”, dopo il settore metalmeccanico, con 127 miliardi di fatturato, dei quali 23 miliardi vanno all’export, oltre 410mila addetti e 6.500 imprese (i dati non sono aggiornatissimi, ma danno una idea della rilevanza del comparto). Nell’ultimo decennio, l’industria alimentare ha registrato una crescita di oltre il 10%, a fronte di un decremento dell’industria manifatturiera nel suo complesso. La quota di ’“export” dell’industria alimentare sta crescendo significatamente, proprio sull’assunto dell’importanza dell’immagine del made in Italy. La nostra immagine (ancora), frutto del connubio tra bellezza, arte, natura e cibo, è una fonte di marketing per i nostri prodotti imprenscindibile, soprattutto nei mercati c.d. emergenti. Inoltre, si tratta di un settore anciclico, come si è avuto modo di vedere durante le crisi del debito (prima privato, poi pubblico) nel 2007-2011 e ora con il convid-19.
Vi sono però rilievi negativi che possono essere fatti: l’incidenza export/fatturato del settore, malgrado le forti potenzialità e la grande immagine del made in Italy, si ferma a circa il 20 %: una percentuale inferiore a quella di Francia e Germania. Pertanto, la nostra produzione è troppo legata a dinamiche interne sui consumi. Inoltre, vi è una forte frammentazione e un dimensionamento non ottimale delle imprese (a livello agricolo e di trasformazione) e ciò crea, per un verso, una difficoltà di competere nei mercati internazionali (e si è perdenti soprattutto nei confronti dei Paesi che riescono meglio a presentarsi con aziende più performanti e grandi, come la Francia). Per l’altro, essendo marginali gli operatori italiani nella grande distribuzione, nel nostro territorio rischiamo di perdere quote di mercato a favore di soggetti stranieri, all’estero non riusciamo ad aiutare le nostre imprese nell’export e far circolare i loro prodotti, siano essi trasformati o meno.
2. Il disegno di legge modifica sostanzialmente la legge n. 283/1962, introduce nuovi reati nel codice alimentare e li estende nel novero dei reati presupposto di cui al decreto 231. La prima è la norma di riferimento attuale sugli illeciti alimentari che dovrebbe essere integrata con nuove fattispecie (alcune delittuose e altre contravvenzionali) atte a sanzionare talune condotte di “gestione” degli alimenti, che spaziano dalle fasi prodromiche di produzione e preparazione, a quelle tipicamente finali di commercio e somministrazione. Si tratta di reati di pericolo astratto, punibili anche a titolo di colpa ed è previsto un trattamento punitivo più grave se i fatti sono commessi nell’ambito del mercato della grande distribuzione o del commercio all’ingrosso. Il pericolo interpretativo che qui vediamo è la loro correlazione (come è ovvio che sia) alle norme presupposto europee di diritto alimentare (innanzitutto il reg. 178/2002). E qui sorgeranno questioni riguardanti l’interpretazione di tali disposizioni, che tuttavia troveranno molte risposte nella copiosa dottrina di questi ultimi anni (ci permettiamo di rinviare su tutti tali profili al nostro Il diritto alimentare nel contesto globale, Usa e Ue a confronto, Cedam, Padova, 2017).
Altra criticità potrebbe consistere in ulteriori ambiguità in merito alle posizioni di garanzia e trasferimento dei poteri impeditivi, considerando i principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di gestione del rischio nelle organizzazioni complesse. Invero, il progetto di riforma prevede, in linea con quanto già esistente dalla legislazione speciale in materia di sicurezza sul lavoro, di disciplinare espressamente l’impiego dell’istituto della “delega di funzioni” nell’ambito delle imprese agroalimentari. Come noto, la delega di funzioni è atto organizzativo di natura negoziale, attraverso il quale si realizza la traslazione di specifici doveri e dei relativi poteri necessari all’adempimento, dal titolare ex lege (garante originario o delegante) ad altro soggetto (garante derivato o delegato). Andrebbe probabilmente disegnato meglio il suo perimetro di azione nel settore alimentare in futuro.
Invece, vediamo con favore che nella nuova (possibile) versione della l. n. 283/1962 vi è l’introduzione di un meccanismo premiale di estinzione delle contravvenzioni attraverso il procedimento delle “prescrizioni”, già sperimentato nell’ambito della disciplina della sicurezza sul lavoro (con il d.lgs. 759/1994) e nel diritto ambientale (con il d.lgs. 152/2006, come modificato dalla legge n. 68/2015). Esso potrebbe essere utilizzato nel caso in cui non sia stato cagionato un danno o un pericolo concreto e attuale di danno alla salute pubblica e alla sicurezza alimentare e la cui realizzazione dipenda da rischi che possono essere neutralizzati o rimossi, la possibilità per il soggetto attivo di estinguere il reato. Le condizioni della efficacia scriminante delle prescrizioni sono le stesse della sicurezza e dell’ambiente: il tempestivo loro adempimento così come impartite dall’organo di vigilanza che ha accertato la commissione di un illecito contravvenzionale “sanabile”; il pagamento in via amministrativa di una somma in denaro, pari a un terzo del massimo edittale dell’ammenda prevista per l’illecito contestato. In caso d’inadempimento anche di uno solo dei due obblighi, il procedimento penale proseguirà nelle forme ordinarie.
3. Il disegno di legge nel codice penale incide sui due gruppi di reati tradizionalmente associati al settore alimentare, ossia i delitti contro la salute pubblica e i delitti contro l’industria e il commercio. Secondo la riforma, il titolo VI del libro II del codice penale, rubricato “dei delitti contro l’incolumità pubblica”, dovrebbe essere modificato con un espresso riferimento alla “salute pubblica” quale ulteriore interesse protetto dalle fattispecie ivi contenute. L’innovazione più rilevante, a nostro parere, consisterebbe nella introduzione dei delitti di “disastro sanitario” (art. 445-bis c.p., con pena severissima da sei a diciotto anni di reclusione) e quello di “produzione, importazione, esportazione, commercio, trasporto, vendita o distribuzione di alimenti pericolosi o contraffatti” (art. 440 c.p, riunendo altre fattispecie già esistenti). Quest’ultimo prevedrebbe che “[c]hiunque produce, importa, esporta, spedisce in transito, introduce in custodia temporanea o in deposito doganale, trasporta, detiene per il commercio, commercializza, somministra, vende o distribuisce alimenti non sicuri, pregiudizievoli per la salute o inadatti al consumo umano, ovvero contraffatti o adulterati, ponendo concretamente in pericolo la salute pubblica nella consumazione del prodotto, è punito con la reclusione da due ad otto anni”.
Nell’ambito dei “delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio”, le più rilevanti novità proposte dal disegno di legge consistono in un’integrazione della rubrica del titolo VIII del libro II del codice penale, con un espresso richiamo al “patrimonio agroalimentare quale ulteriore bene giuridico protetto dalla rinnovata disciplina dei reati di frode, allo scopo di valorizzare le istanze di protezione della filiera alimentare intesa come entità complessa costituita dalle peculiarità del territorio di origine dei prodotti alimentari e dalle tradizioni collegate all’attività di produzione e trasformazione degli stessi, aldilà delle caratteristiche organolettiche dei singoli alimenti. Con tale logica si è prevista l’introduzione della disciplina della c.d. “agro-pirateria” (art. 517-quater1 c.p.): “Chiunque, fuori dai casi di cui agli articoli 416 e 416- bis, al fine di trarne profitto, in modo sistematico e attraverso l'allestimento di mezzi o attività organizzate, commette alcuno dei fatti di cui agli articoli 516 e 517, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da 15.000 a 75.000 euro; se commette alcuno dei fatti di cui all'articolo 517-quater, è punito con la reclusione da tre a sette anni e con la multa da 20.000 a 100.000 euro”.
Altra novità rilevante appare essere la modifica della struttura e l’ambito operativo delle disposizioni del capo II, che viene rinominato “delle frodi in commercio di prodotti alimentari”. La disciplina generale della frode in commercio (ex art. 515 c.p.) è rimasta la stessa, ma si è prevista la frode alimentare in una diversa disposizione, ossia l’art. 516 c.p. che cambia nome (e sostanza) che così dovrebbe recitare: “[f]uori dei casi di cui all'articolo 517, chiunque, nell'esercizio di un'attività agricola, commerciale, industriale o di intermediazione, importa, esporta, spedisce in transito, introduce in custodia temporanea o in deposito doganale, trasporta, detiene per vendere, offre o pone in vendita, somministra, distribuisce o mette altrimenti in circolazione alimenti che, per origine, provenienza, qualità o quantità, sono diversi da quelli indicati, dichiarati o pattuiti, è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni e con la multa fino a 10.000 euro”. E l’art 517 (rubricato “vendita di alimenti con segni mendaci”) disporrebbe che “[c]hiunque, nell'esercizio di un'attività agricola, commerciale, industriale o di intermediazione di alimenti, al fine di indurre in errore il consumatore, anche mediante introduzione in custodia temporanea o in deposito doganale, utilizza falsi o fallaci segni distintivi o indicazioni, ancorché figurative, ovvero omette le indicazioni obbligatorie sull'origine o provenienza geografica ovvero sull'identità o qualità del prodotto in sé o degli ingredienti che ne rappresentano il contenuto qualificante, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro”.
4. In riferimento al decreto 231, il disegno di legge prevede l’introduzione, nel catalogo dei reati presupposto che fanno insorgere una responsabilità dell’ente, dei reati agroalimentari risultanti dalla riforma del codice penale. In particolare, il progetto prevede la suddivisione del vigente art. 25-bis d.lgs. 231/2001 in tre differenti disposizioni, aventi a oggetto rispettivamente i delitti contro l’industria e il commercio (art. 25-bis), le frodi in commercio di prodotti alimentari (art. 25-bis) e i delitti contro la salute pubblica (art. 25-bis), così ricomprendendo nella sistematica della responsabilità da reato, sia le fattispecie poste a tutela della salute pubblica, sia quelle a tutela del mercato dei prodotti agroalimentari. E fin qui nessuna novità: nel caso in cui dovesse essere accertata una responsabilità dell’ente, potrebbero essere comminate sanzioni pecuniarie proporzionali (secondo il tipico paradigma previsto dal decreto con le quote), nonché sanzioni interdittive gravemente afflittive, ivi compresa l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività.
Al contrario, assai interessante, e si tratta a nostro avviso di una novità di assoluto interesse, è la previsione di un nuovo articolo 6-bis nel decreto 231 che introduce una sorta di presunzione di efficacia per il modello 231 delle imprese agroalimentari che però deve avere delle caratteristiche peculiari. Specificatamente, esso deve essere adottato e efficacemente attuato “per l'adempimento di tutti gli obblighi giuridici, a livello nazionale e sovranazionale, relativi: a) al rispetto degli standard relativi alla fornitura di informazioni sugli alimenti; b) alle attività di verifica sui contenuti delle comunicazioni pubblicitarie al fine di garantire la coerenza degli stessi rispetto alle caratteristiche del prodotto; c) alle attività di vigilanza con riferimento alla rintracciabilità, ovvero alla possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un prodotto alimentare attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione; d) alle attività di controllo sui prodotti alimentari, finalizzati a garantire la qualità, la sicurezza e l'integrità dei prodotti e delle relative confezioni in tutte le fasi della filiera; e) alle procedure di ritiro o di richiamo dei prodotti alimentari importati, prodotti, trasformati, lavorati o distribuiti non conformi ai requisiti di sicurezza degli alimenti; f) alle attività di valutazione e di gestione del rischio, compiendo adeguate scelte di prevenzione e di controllo; g) alle periodiche verifiche sull'effettività e sull'adeguatezza del modello”.
Peraltro, tali modelli, ai sensi del comma 2 dello stesso articolo devono prevedere: “a) idonei sistemi di registrazione dell'avvenuta effettuazione delle attività ivi prescritte; b) un'articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica, la valutazione, la gestione e il controllo del rischio, nonché un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello; c) un idoneo sistema di vigilanza e controllo sull'attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate”. E il riesame e l’eventuale modifica del modello organizzativo devono essere adottati quando siano scoperte violazioni significative delle norme relative alla genuinità e alla sicurezza dei prodotti alimentari, alla lealtà commerciale nei confronti dei consumatori, ovvero in occasione di mutamenti nell'organizzazione e nell'attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico.
5. In conclusione, e tralasciando in questa sede commenti (che sarebbero critici, forse troppo) sulle motivazioni economiche, sociali e politiche della (possibile) della introduzione di questa riforma, fondate perlopiù sulla food safety, la salute pubblica e la tutela dei consumatori, la riforma dei reati agroalimentari ruota intorno a tre “pilastri”.
- Il primo consiste nella rielaborazione della struttura delle fattispecie incriminatrici collegate all’esercizio dell’impresa alimentare. Effettivamente, considerando il tumultuoso sviluppo del diritto alimentare di questi ultimi venti anni, una riorganizzazione sistematica delle condotte punitive in tale settore appariva necessaria. Nuove tecnologie, estensione dei mercati di riferimento, nuove modalità di comunicazione al consumatore degli alimenti e centralità del cibo nel benessere dell’uomo, portano alla costruzione di un diritto alimentare che necessità anche di uno strumentario autonomo sotto il profilo penale.
- Il secondo “pilastro” della riforma consiste nell’introdurre strumenti (sia in termini generali preventivi, sia special preventivi) a scoraggiare e fronteggiare fenomeni particolarmente gravi di frode alimentare, che nell’attuale dimensione allargata degli scambi commerciali, si manifestano attraverso condotte illecite di tipo massivo svolte in forma stabile e organizzata nell’ambito delle attività d’impresa. Questo concetto, ci convince di meno. Infatti, appare anche qui la stessa confusione che sottende alla introduzione degli ecoreati nel 2015 (anche questi oggetto probabilmente di una nuova riforma, ma è un’altra storia): si sono poste sullo stesso piano le poche (forse pochissime) imprese che hanno sostanzialmente un “oggetto sociale criminale”, ossia nascono allo scopo di frodare i consumatori e il loro profitto si fonda solo su questo, con le tantissime (direi, quasi la totalità) delle imprese che invece sono sane e combattono sul mercato nazionale, europeo e internazionale e sono la spina dorsale del nostro sistema economico. Le prime vanno severamente punite, le seconde vanno aiutate. Per come è strutturata la riforma, si rischia che invece queste ultime subiscano un ulteriore svantaggio competitivo.
- Il terzo pilastro è la (possibile) estensione di tali reati nel novero dei reati presupposto ai sensi del decreto 231. Anche qui qualche rilievo critico deve essere fatto: sarebbe stato preferibile estendere solo le condotte illecite più rilevanti alla responsabilità degli enti. Ma la specifica presunzione di efficacia per il modello “speciale” delle imprese agroalimentari ha un senso e potrebbe essere una innovazione legislativa davvero importante anche nella logica generale di compliance per tutte le imprese. Il processo giuridico in atto appare tuttavia delineato: si sta spostando il rischio alimentare (e l’efficacia della tutela) dalle persone fisiche alle persone giuridiche. E’ sugli enti che si intende oggi far gravare sostanzialmente la responsabilità alimentare, poiché le sanzioni del decreto 231 appaiono idonee a scoraggiare le imprese dalla commissione di illeciti (soprattutto in riferimento alla applicazione delle misure interdittive). Questo approccio normativo avrà effetti positivi per aumentare la produttività delle nostre (preziose) imprese alimentari o le mortificherà ancora di più? Dobbiamo attendere, nel caso in cui il disegno di legge fosse approvato, almeno qualche anno per avere una seppur sommaria risposta. Certo è che mancato sviluppo (sostenibile) del comparto alimentare italiano si integra con mancata crescita (economica e non del Paese).
Ultima modifica il 29/12/2020