L’evoluzione del diritto sindacale e prospettive future
A cura dell'Avv. Baldi, docente in area Legale
:: estratto dal libro: "Compendio di Diritto Sindacale" - Maggioli Editore in collaborazione con MELIUSform ::
L’attuale sistema delle relazioni sindacali rappresenta il prodotto di una lunga esperienza che ha accompagnato le trasformazioni politiche e sociali del nostro Paese. Parlando di diritto sindacale ci si riferisce, comunemente, a quella peculiare branca del diritto del lavoro che si occupa di rapporti collettivi, non limitata quindi alle dinamiche dei rapporti individuali di lavoro.
Il diritto sindacale, quindi, si occupa di regolamentare i rapporti tra organismi (siano associazioni o meno) che sono portatori di interessi professionali di gruppi contrapposti.
Ad eccezione di alcune fattispecie specifiche, tutta la materia delle relazioni sindacali è demandata all’accordo delle parti, per cui è connaturale una certa fragilità di fondo dato che le regole, esattamente come in un contratto “aperto”, vincolano solo coloro che le hanno negoziate ovvero hanno liberamente deciso di accettarle.
Da un punto di rivista storico il sistema delle relazioni sindacali ha una genesi piuttosto recente.
Fu dallo scioglimento delle vecchie corporazioni di arti e mestieri, passando per le Società di mutuo soccorso (che avevano natura solidaristica e sopperivano alla mancanza dello stato sociale) che, a partire dalla fine dell’800, nacquero le Leghe di resistenza (organismi fortemente politicizzati, che potremmo considerare un antenato del sindacato di mestiere, con lo scopo di difesa dei salari, dell’orario e le condizioni di lavoro contro le azioni del datore di lavoro) nonché le federazioni di mestiere (organismi più indipendenti dal potere politico rispetto alle Leghe e con la funzione di tutelare, con specifico riguardo ad alcuni settori professionali, tutti i lavoratori di una stessa categoria, anche attraverso la stipula di convenzioni o contratti collettivi).
Nell’ultimo decennio dell’800 si formarono le Camere del lavoro, che ben presto divennero organismi di rappresentanza politica e sindacale di tutti i lavoratori impiegati in una determinata zona territoriale.
Agli inizi del ’900 le Camere del lavoro e le federazioni di mestiere confluirono nella Confederazione Generale del Lavoro (CGdL) ovvero la madre delle grandi confederazioni sindacali italiane.
La CGdL si ebbe un ruolo fondamentale nell’affermarsi di un diritto sindacale costruttivo ed aperto al confronto, anche attraverso una generalizzazione del sistema della contrattazione collettiva del lavoro.
Tuttavia, l’avvento del periodo fascista arrestò bruscamente questo processo e determinò uno stravolgimento della funzione e natura dell’azione sindacale.
Il sindacato fascista si impose come sindacato di Stato, soggetto di diritto pubblico ed in grado di stipulare atti con efficacia erga omnes. Nel 1927 fu annunciato l’autoscioglimento della CGdL e da quel momento il sindacato italiano si identificò totalmente con il sindacato fascista.
Nel regime fu la proclamata la dipartita del diritto sindacale, in particolare con la negazione del pluralismo sindacale e la repressione penale dello sciopero.
Dopo la caduta del fascismo iniziò un faticoso percorso per la ripresa di una dimensione naturale del ruolo dei sindacati. Fu così che dalle ceneri delle Camere del lavoro venne costituita la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) in cui confluirono cattolici, comunisti e socialisti. Nel 1948 ci fu la scissione e oltre alla CGIL, espressione delle sole componenti comunista e socialista, si formarono l’Unione Italiana del Lavoro (UIL), costituita dalle correnti repubblicana e socialdemocratica (1949), e la Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL), d’ispirazione cattolica (1950).
Nel 1950, poi, si costituì la Confederazione Italiana Sindacati Nazionali Lavoratori (CISNAL, oggi l’UGL, Unione Generale del Lavoro, fondata nel 1996), legata al Movimento sociale italiano, e nel 1957 la Confederazione Italiana Sindacati Autonomi Lavoratori (CISAL), rappresentativa del sindacalismo autonomo.
I decenni a seguire si caratterizzarono per una diversità di vedute che si traspose anche nell’abito delle relazioni industriali. In particolare gli accordi vennero stipulati in maniera antitetica, da un lato la CGIL, e dall’altro CISL e UIL, con largo uso di accordi separati.
Con gli anni ’60 e ’70 si aprì una nuova stagione delle relazioni sindacali che si caratterizzò per una forte conflittualità (soprattutto nel settore metalmeccanico) tra aziende e sindacati e per una ripresa dell’unità di azione delle confederazioni che divennero un interlocutore privilegiato nella definizione della politica economica.
Quegli anni furono anche contrassegnati da una vera svolta, ovvero la nascita dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970) con le fondamentali disposi zioni in meria di rappresentanza sindacali aziendali e riconoscimento alle stesse dei diritti di cui al titolo III. Si registra anche un tentativo di unificazione tra le grandi confederazioni in un soggetto unitario, che però naufragò alla prova della scala mobile e in particolare per le diversità di posizioni nei confronti del taglio di alcuni punti di contingenza, deciso dal governo nel 1984.
Negli anni successivi ci fu una forte crisi di rappresentatività ed un indebolimento dei consensi cui fece da corollario l’affermarsi del sindacalismo autonomo di base (COBAS). Tale situazione si è ulteriormente acutizzò nel corso degli anni ’90, sino a quando, posti difronte a macro problemi sostanziali (quali processi di ristrutturazione del sistema produttivo; crescita del debito pubblico; crisi economica) i sindacati decretarono un cambio di rotta, concordando sulla necessità convergere su aspetti fondamentali.
Un momento rilevante di questa “strutturazione” del sistema sindacale fu il protocollo
Ciampi del 1993 che ha segnato l’inizio della concertazione sociale e la definizione di principi che sono ancora oggi fondamentali (struttura contrattuale bipolare, centralità del contatto nazionale e funzione integrativa del contratto di secondo livello). Alcuni decenni più tardo, però, il sistema vacillò pericolosamente per effetto della cd. “vicenda FIAT”, che ha determinato una sorta dualismo tra le posizioni della parti sociali (che autoregolamentano, tramite gli accordi, le relazioni sindacali) e le scelte di politica industriale di aziende trinanti del nostro sistema economico (pur sempre assecondate dal legislatore in parte condizionato da tali scelte) che, appunto perché formalmente legittime, hanno messo a nudo le fragilità del sistema delle relazioni sindacali.
È difficile dire cosa accadrà in futuro. Certo è che, la necessità di far fronte alla crisi economica che ha messo in ginocchio l’economia mondiale e che ha avuto ripercussioni devastanti in molti paesi, ha spinto i governi ad agire, anche riformando il mercato del lavoro interno per adattarlo alla nuove esigenze di flessibilità e precarietà del lavoro.
Il futuro delle organizzazioni sindacali, allora, è anche legato alla loro visione dei cambiamenti in atto e alla capacità di leggere correttamente le attuali esigenze del mercato, che non possono dominare ma sono costrette a subire.
A fronte di ciò, il rischio per le organizzazioni sindacali potrebbe quello di arroccarsi su posizioni intransigenti che porterebbero ad uno scontro sterile (in quanto il legislatore sarebbe comunque in grado di “fare da solo”) e dannoso per i lavoratori, che verrebbero esclusi dal processo produttivo.
È opportuno, pertanto, che le parti sociali recuperino una forte coesione sull’azione sindacale e sulle regole della rappresentatività, abbandonando (compatibilmente con le rispettive diversità) posizioni estremiste e di rottura interna. Inoltre, la ripresa economica sembrerebbe essere legata allo sviluppo della contrattazione di secondo livello (ed in particolare aziendale ove è possibile intervenire efficacemente da un punto di vista strategico) e non solo al consolidamento dei contratti collettivi nazionali di lavoro le cui declaratorie potrebbero essere troppo rigide non in linea con lo sviluppo professionale di lavoratori che “transitano” da un lavoro ad un altro e da un settore produttivo ad un altro.
E ciò non può essere sottovalutato dal sindacato.
Ma, al di là di quelle che sono le posizioni dei sindacati confederali, alla fine deve ritenersi che il sistema sia sempre capace di autorigenerarsi, magari ad opera di nuovo organismi in grado di intercettare le nuove istanze.