La Corte Costituzionale sul contratto a tutele crescenti: la reintroduzione della discrezionalità valutativa del giudice
La discrezionalità valutativa del giudice
A cura di V. Baronchelli e D. Vinciguerra (partecipanti dell'Executive Master in Giurista d'Impresa)
Con la sentenza n. 194/2018 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”) sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte non modificata dal D.L. n. 87/2018 (c.d. “Decreto dignità”) - che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato.
In particolare, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, a parere della Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli artt. 4 e 35 della Costituzione.
Prima di entrare nel merito della fattispecie ed analizzare gli impatti che tale pronuncia ha avuto e potrà avere sugli attuali giudizi pendenti, instaurati sotto la vigenza del vecchio art. 3, D.Lgs. n. 23/2015, così come modificato dal Decreto dignità, è utile premettere quanto prevede la disciplina di settore e come la stessa sia stata costantemente interpretata e applicata a livello giurisprudenziale prima della pronuncia in esame.
Ad oggi, la disciplina che interessa il licenziamento prende spunto e modifica la L. n. 92/2012 (“Legge Fornero”), applicabile ai lavoratori assunti sino al 6.3.2015, ed il D. Lgs. n. 23/2015, applicabile ai lavoratori assunti dopo il 6.3.2015.
La Legge Fornero prevedeva:
- una tutela reintegratoria nel caso di nullità del licenziamento, insussistenza del fatto contestato ovvero qualora il fatto fosse riconducibile a condotte punibili con sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi e dei codici disciplinari applicabili;
- il riconoscimento al lavoratore, attraverso l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, di una indennità tra le dodici e le ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in tutte le altre ipotesi.
Diversamente, il Jobs Act, tutt’ora in vigore, con l’introduzione del contratto a tutele crescenti, ha ristretto le ipotesi di tutela reintegratoria prevedendo la corresponsione al lavoratore ingiustificatamente licenziato di un’indennità parametrata solo all’anzianità di servizio, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di un importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.
La tutela prevista dal D.lgs. n. 23/2015 è stata, poi, ampliata dalla riforma attuata con il D.L. n. 87/2018 che ha portato ad incrementare il numero di mensilità spettanti al lavoratore licenziato ingiustamente: due per ciascun anno, tra un minimo di sei ed un massimo di trentasei. La Consulta è giunta a dichiarare l’illegittimità dell’art. 3, comma 1, del D.Lgs. 23/2015, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e per ogni anno di servizio”.
In particolare, la Corte ha rilevato che il rigido meccanismo di quantificazione dell’indennità spettante al lavoratore licenziato illegittimamente, uniforme per tutti i lavoratori con pari anzianità di servizio, si ponesse in contrasto con i principi di eguaglianza e ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione, determinando una “ingiustificata omologazione di situazioni diverse”, non prendendo in debita considerazione fattori ulteriori e diversi rispetto all’anzianità di servizio, quali il comportamento concretamente tenuto dalle parti e le loro condizioni, nonché le dimensioni dell’attività economica e il numero dei dipendenti occupati. Inoltre, la Corte ha censurato la rigidità del meccanismo di calcolo, ritenendolo in contrasto con i canoni costituzionali di ragionevolezza e logicità. In particolare, tale meccanismo non solo sarebbe del tutto inidoneo ex post a offrire un adeguato ristoro del pregiudizio subito dal lavoratore (soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata) ma altresì, in una prospettiva ex ante, non sarebbe nemmeno dotato di sufficiente capacità deterrente rispetto al ricorso a pratiche abusive o illecite da parte del datore di lavoro.
Peraltro, secondo la Corte, l’esigenza di operare una personalizzazione del danno subito dal lavoratore, che si riflette nella conseguente necessità di lasciare al giudice un margine di discrezionalità nella determinazione del quantum dell’indennità, sarebbe un diretto riflesso della consistenza non meramente patrimoniale, ma anche - e soprattutto - personale degli interessi facenti capo al lavoratore, da considerare adeguatamente nel bilanciamento con i valori dell’impresa. Al riguardo, la Consulta ha rilevato che la norma oggetto di scrutinio comprimesse in misura eccessiva (e, dunque, illegittima) i preminenti interessi del lavoratore, che trovano specifico riconoscimento e tutela nell’ordinamento costituzionale, sia in via diretta, ex artt. 4 e 35 Cost., sia in via indiretta, ex art. 24 della Carta sociale europea, che sancisce il “diritto del lavoratore licenziato senza valido motivo a ricevere un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”. Ripercorrendo quindi le tappe che hanno segnato il regime dell’apparato sanzionatorio in caso di licenziamento carente di motivo oggettivo, si evidenzia come prima della riforma operata attraverso il D.Lgs. n. 23/2015 fosse garantita ampia discrezionalità al giudice nella determinazione dell’indennità. L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, riformato dalla L. n. 92/2012, infatti, prevedeva che l’indennità risarcitoria omnicomprensiva venisse determinata sulla base di criteri specifici, quali, tra gli altri, l’anzianità del lavoratore, il comportamento e le condizioni delle parti, nonché le iniziative del lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione. Con il Jobs Act, al contrario, è stato invece implementato un regime sanzionatorio tale da precludere qualsiasi discrezionalità valutativa del giudice, parametrando l’indennità economica al solo criterio dell’anzianità di servizio.
Il Jobs Act, prendendo le mosse da una condizione meritevole di tutela, ossia la necessità di “favorire il coinvolgimento attivo di quanti siano espulsi dal mercato del lavoro ovvero siano beneficiari di ammortizzatori sociali”[1], aveva quale scopo quello di alleggerire le conseguenze del licenziamento illegittimo, rendendo certa l’esposizione del datore di lavoro verso il lavoratore illegittimamente licenziato. Tale evidente disparità di trattamento tra i c.d. “vecchi assunti” e “nuovi assunti” è stata altresì considerata dalla Corte Costituzionale coerente con il principio di uguaglianza. L’aspetto meritevole di tutela era si rinveniva anche nella volontà di rendere più facile l’accesso al mondo del lavoro.
Ancorché il legislatore del Jobs Act avesse optato per una predeterminazione ex ante dell’entità risarcitoria, l'intervento dirompente della pronuncia della Corte Costituzionale ha invece reintrodotto un regime sanzionatorio improntato ad una ampia discrezionalità del giudice, ispirata ai criteri richiamati dall’art. 18, comma 5, L. n. 300/1970, come sopra individuati.
Ad oggi, pertanto, si può affermare come attraverso l’abolizione del regime delle tutele crescenti, la situazione si sia ribaltata, considerato che ai c.d. “vecchi assunti”, in caso di licenziamento illegittimo, il giudice può decidere di riconoscere una indennità fino a 27 mensilità nei casi più gravi di “manifesta insussistenza del fatto”, mentre ai c.d. “nuovi impiegati”, anche se assunti da meno tempo, fino ad un massimo di 36 mensilità. La sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale ha infatti immediatamente riverberato i suoi effetti sulle successive pronunce giurisprudenziali, anche con esiti alquanto peculiari e, prima facie, non letteralmente conformi al dettato della Consulta.
A tal riguardo, un’ordinanza del Tribunale di Genova del 21.11.2018 ha attirato l’attenzione dei giuslavoristi con una pronuncia che ha interpretato in maniera estensiva la decisione della Corte Costituzionale, giungendo a condannare una società al pagamento dell’indennità massima prevista dal D.Lgs. n. 23/2015 per le piccole imprese ritenendo, in forza della sentenza n. 194/2018, che il ragionamento sottostante a tale pronuncia fosse estendibile anche all’art. 9 del medesimo decreto, riguardante la disciplina delle piccole imprese, nonostante quest’ultimo non fosse stato oggetto del quesito di costituzionalità.
Nel caso di specie, in data 17.10.2017 la ricorrente era stata sottoposta a licenziamento per giustificato motivo oggettivo a seguito di riassetto aziendale dell’impresa presso la quale era impiegata. Il Tribunale Genovese, riconoscendo alla ricorrente il diritto all’indennità risarcitoria che, nel caso concreto, era oggetto di dimezzamento per l’insussistenza dei requisiti dimensionali di cui all’art. 18 della L. 200/1970, ha stabilito come la censura della Consulta sul calcolo dell’indennizzo basato sulle “due mensilità dell’ultima retribuzione” si dovesse estendere per analogia anche alle imprese di piccole dimensioni, decidendo di garantirle il massimo dell’indennità prevista, pari a sei mensilità.
Posto quanto sopra, occorre rilevare come, così come in parte già anticipato, il percorso che ha portato alla “riforma Renziana” culminata nel D.Lgs. n. 23/2015 sia stato frutto della volontà di un legislatore animato dall’intento di limitare due fenomeni: il dilagante contenzioso del lavoro, legato alle incerte conseguenze dei processi, e la c.d. “proprietà” del posto di lavoro, che si concretava nell’istituto della reintegrazione come prevista dall’originario art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
In effetti, l’attuazione del Jobs Act ha avuto quale effetto la riduzione del numero delle cause di lavoro: infatti, secondo i dati pubblicati dal Corriere della Sera[2], dal 2012 al 2016 i contenziosi sono diminuiti di circa la metà e, sulla scorta di quanto affermato dal Ministero della Giustizia[3], nel 2017 sono stati avviati in Tribunale 20.580 procedimenti nel settore privato, su un totale di 890.000 licenziamenti, in diminuzione dell’8% rispetto al 2016.
Con la pronuncia oggetto del presente articolo, il rischio è, tuttavia, quello di invertire la rotta sinora descritta. Bisogna, infatti, considerare come la riespansione della discrezionalità concessa ai giudici di merito abbia già creato una situazione di maggiore e fisiologica incertezza che potrebbe far lievitare, quantomeno nel breve periodo, il contenzioso legato ai licenziamenti. Tale pronuncia potrebbe condurre, inoltre, a una diversificazione fra sanzioni applicabili ai medesimi dipendenti sulla mera scorta del momento dell’assunzione ed appare, altresì, in netta controtendenza rispetto alla volontà del legislatore del 2015.
Secondo una parte della dottrina, però, si tratta di una decisione che dal punto di vista sostanziale potrebbe non comportare modifiche straordinarie nel lungo periodo: è plausibile che i giudici, infatti, nelle loro determinazioni discrezionali future, non si discosteranno particolarmente dal criterio stabilito dalla legge.
Per concludere, giova dare atto come l’Italia, ancor prima di questa pronuncia, rientrasse già fra i paesi più “generosi” per quanto riguarda gli indennizzi in caso di licenziamento illegittimo. Quello minimo (pari a sei mesi) supera, infatti, di gran lunga la mezza mensilità della Germania, le tre settimane del Belgio e i trentatre giorni della Spagna, mentre solo la Svezia con sedici mensilità offre una tutela più consistente. Il “risarcimento” massimo concesso in Italia, invece, non ha rivali in Europa, considerato che la Germania si ferma a un massimo di diciotto mensilità, Spagna e Irlanda a ventiquattro, la Francia a venti.
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Riferimenti Bibliografici
- “Licenziamenti e tutele crescenti: prime pronunce e prime questioni del 8 febbraio 2017, di Edoardo Frigerio;
- “Licenziamenti illegittimi e sanzioni. L’evoluzione normativa, la giurisprudenza più recente e la conciliazione stragiudiziale”, Il Sole 24 Ore del 13 aprile 2018, n. 16;
- “Licenziamenti illegittimi”: i lati oscuri della nuova indennità risarcitoria, IPSOA QUOTIDIANO, 18 luglio 2018, di Eufranio Massi;
- “Licenziamenti Jobs Act, ora per 20 mila cause deciderà il giudice caso per caso”, Il Sole 24 Ore del 26 settembre 2018, di Francesca Barbieri;
- “Licenziamento illegittimo: come calcolare l’indennità dopo la bocciatura del Jobs Act”, del 6 novembre 2018, di Gabriella Mazzotta;
- “Sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale: facciamo un po’ di chiarezza”, Rassegna di Giurisprudenza e di Dottrina, novembre 2018, di Chiara Julia Favaloro e Riccardo Vannocci;
- “La portata innovativa della sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale (non più predeterminabili i rischi economici sui licenziamenti), 20 novembre 2018, di Mario Gatti e Federico Allavelli;
- “Licenziamento illegittimo: l’atteso intervento della Corte Costituzionale”, in Giuricivile, 2018, 11 del 13 novembre 2018 di Giulio Borrelli.
- “Licenziamenti illegittimi: come cambia la valutazione delle imprese sulle conseguenze”, IPSOA QUOTIDIANO, 30 novembre 2018, Andrea D’Ettorre;
- “Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti”, del 1 dicembre 2018, di O. Mazzotta;
- “Lavoro e tutele creative: efficace garanzia o più incertezza?” Il Sole 24 Ore del 12 dicembre 2018 di Tortuga;
- “Licenziamenti illegittimi: come cambiano le tutele crescenti dopo la pronuncia della Consulta”, IPSOA QUOTIDIANO, 5 febbraio 2019, Andrea D’Ettorre;
- “I primi effetti della sentenza della Corte costituzionale e la “nuova” giurisprudenza”, Rassegna di Giurisprudenza e di Dottrina, febbraio 2019, di Chiara Julia Favaloro e Riccardo Vannocci;
- “Licenziamenti e indennità le regole non danno certezze”, Affari&Finanza, 4 marzo 2019, di Vittorio De Luca;
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