La determinazione dell'imposta evasa ai fini penal-tributari (Parte 1)
A cura dell'Avv. S. Mecca, Docente in area Legale
Il concetto di imposta evasa, ai fini penal-tributari, è sempre stata oggetto di un forte dibattito giurisprudenziale. Ciò soprattutto in virtù della forte autonomia che caratterizza il procedimento tributario in senso stretto e quello penale. A tal proposito, quindi, il concetto di «imposta evasa» ai fini penali non coincide necessariamente con quello di «imposta dovuta» ai fini amministrativi.
LA NOZIONE DI IMPOSTA EVASA
La disciplina dei reati tributari (o meglio reati in materia di imposte dirette e sul valore aggiunto) è contenuta nel Decreto legislativo nr. 74 del 2000, modificato da ultimo dal D.Lgs. n. 158 del 2015 (in vigore per la parte penal-tributaria dal 22 ottobre 2015).
A distanza di quasi vent’anni dalla sua introduzione nell’ordinamento, rimangono ancora irrisolte alcune problematiche operative legate alla corretta ricostruzione di importanti aspetti di natura sostanziale. Tra queste assume particolare rilievo la quantificazione dell’imposta evasa che, essendo necessaria per verificare il superamento delle soglie di punibilità previste per la maggior parte delle fattispecie di reato tributario[1], si connota quale elemento costitutivo dei singoli illeciti.
Il legislatore, all’art. 1, lettera f), del decreto 74/00, chiarisce che per imposta evasa deve intendersi la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine.
Sulla base di tale definizione emerge chiaramente che il concetto di imposta evasa è legato sostanzialmente a quanto indicato in dichiarazione.
È poi necessario tenere conto delle varie ritenute di imposta effettuate al contribuente da parte di qualunque sostituto.
Si pensi al caso di un professionista che abbia solo parzialmente dichiarato i propri redditi: l’imposta evasa non sarà rappresentata dalla differenza di quanto accertato rispetto a quanto dichiarato dal professionista medesimo, ma occorrerà stornare detto importo da tutte le ritenute effettuate all’atto della corresponsione di compensi.
Si segnala poi che in presenza di un evasore totale, di un soggetto cioè completamente sconosciuto al Fisco che non ha presentato la dichiarazione, per accertare l’imposta evasa occorrerà quantificare non solo gli elementi attivi omessi, ma anche quelli passivi non dichiarati, deducibili ai fini della determinazione del reddito.
In tal senso, infatti, si ritiene debba essere interpretata la locuzione “imposta dovuta” utilizzata dal legislatore.
Da tale imposta occorrerà ulteriormente detrarre le somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto di ritenuta o comunque di pagamento.
In considerazione dell’equiparazione operata dal legislatore dell’imposta evasa con l’indebito rimborso richiesto, ovvero dell’inesistente credito di imposta, le soglie di punibilità riferite all’imposta evasa si intendono estese anche all’ammontare dell’indebito rimborso richiesto o dell’inesistente credito di imposta esposto nella dichiarazione.
LA RILEVANZA DELLE PERDITE
Occorre anzitutto premettere che il D.Lgs. n. 158/2015 – il quale ha rivisitato totalmente il regime penale tributario previsto dal D.Lgs. 74/2000 - nell’ambito della definizione di imposta evasa precisa ora (sempre alla lettera f) dell’art. 1) che il relativo calcolo debba tener conto delle perdite eventualmente conseguite nell’esercizio ovvero quelle pregresse spettanti ed utilizzabili[2].
Ne consegue che l’imposta evasa non è più quella teorica derivante dalla violazione contestata, ma quella effettiva dopo il computo delle perdite stesse.
La nuova previsione è molto importante considerando che la maggior parte dei reati dichiarativi costituiscono delitto al superamento di una determinata soglia di imposta evasa.
Nello specifico, il Decreto 158/15 ha precisato che non si considera imposta evasa quella teorica e non effettivamente dovuta collegata a:
a) una rettifica in diminuzione di perdite dell’esercizio;
b) perdite pregresse spettanti e utilizzabili.
Ne consegue, in buona sostanza, che, se a seguito di un accertamento ad una società, fosse ripresa a tassazione una base imponibile la cui imposta evasa superi la soglia di punibilità, non è detto che il reato sia commesso.
Potrebbe, infatti, verificarsi che la società in questione in quell’esercizio sia in perdita e, pertanto, computando il valore negativo, la base imponibile da tassare diminuisca con l’effetto che l’imposta evasa potrebbe scendere sotto la soglia penale.
Analogamente, potrebbe ancora verificarsi che il contribuente abbia delle perdite degli anni precedenti da utilizzare per l’esercizio in contestazione, e quindi per effetto di tale valore negativo, la rettifica si traduca in un’imposta evasa sotto la relativa soglia penale.
La modifica, almeno con riferimento alle perdite pregresse, sembra subordinare la norma penale a quella tributaria in quanto fa riferimento alle perdite “spettanti e utilizzabili”. Va da sé che, per ritenerle tali, occorrerà verificare la loro conformità alle disposizioni fiscali.
Tale circostanza comporterà che difficilmente in questi casi la Guardia di Finanza (la quale normalmente si limita alla constatazione della violazione) possa segnalare direttamente il reato all’Autorità Giudiziaria, dovendo intervenire l’Agenzia delle Entrate per calcolare l’imposta “effettivamente” evasa.
ACCERTAMENTO DELL’IMPOSTA EVASA E PROCEDIMENTO PENALE
Si è detto che per il perfezionamento della maggior parte dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000 è richiesto il superamento di una determinata soglia di evasione.
A prima vista sembrerebbe logico ritenere definitivamente accertata, anche ai fini penali, se inferiore alla soglia, l’imposta cristallizzata in un accertamento dell’Ufficio divenuto definitivo, per mancata impugnazione, per adesione o in seguito ad una conciliazione giudiziale, oppure in esito all'esercizio del potere di autotutela (annullamento d'ufficio). Nei casi in cui la stessa Amministrazione finanziaria ha determinato un’imposta evasa inferiore alla soglia penalmente rilevante, sarebbe irragionevole ipotizzare un intervento del giudice penale il quale rideterminasse l’imposta evasa in misura superiore rispetto a quella accertata dall’Ufficio, tale così da configurare un’ipotesi delittuosa.
A ben vedere, in realtà, i rapporti tra il processo penale e il processo tributario, rimangono saldamente ancorati al principio dell’autonomia e del tendenziale parallelismo. Per ciò che riguarda, in particolare, gli esiti del giudizio tributario nel processo penale, è pacifico che la sentenza resa dal giudice tributario non pone alcun vincolo al giudice penale[3].
Il giudice penale, in particolare, accerta il quantum dell’imposta evasa con le regole e gli strumenti propri del rito penale. Questi, pertanto, può superare i limiti del procedimento tributario ed utilizzare tutti i mezzi di prova previsti dall’ordinamento processuale penale, quali, ad esempio, la prova testimoniale, preclusa invece al giudice tributario. Il giudice penale, quindi, sebbene debba far riferimento alla legge tributaria, può e deve disattenderla per quanto attiene agli strumenti di carattere presuntivo utilizzati in sede di accertamento per la ricostruzione indiretta della base imponibile[4] che confliggono con i principi generali del sistema penale. Alla luce di una simile impostazione, perciò, l’attività originata dalla notizia di reato è destinata a procedere in maniera del tutto autonoma rispetto a quella amministrativa tributaria, e può arrivare a quantificazioni dell’imposta evasa non congruenti o addirittura contrastanti con questa.
A tal proposito anche la giurisprudenza della Cassazione (per tutte sentenze nn. 44479/2012, 35846/2013, 7615/2014) è ormai consolidata nel ritenere che, ai fini dell’individuazione del superamento delle soglie di punibilità previste dal D.Lgs. 74/00, sia compito del giudice penale accertare l’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può anche sovrapporsi ed entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario.
È quindi ben possibile che la pretesa tributaria dell’Amministrazione finanziaria venga ridimensionata o addirittura invalidata nel giudizio innanzi al giudice tributario, senza che ciò possa vincolare il giudice penale e senza che possa quindi escludersi che quest’ultimo pervenga - sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario - ad un convincimento diverso: è ovvio però che di tale diverso convincimento occorre dare specifica e congrua motivazione.
RILEVANZA DEGLI ISTITUTI DEFLATTIVI IN MERITO ALLA DETERMINAZIONE DELL’IMPOSTA EVASA
Analogo discorso vale in relazione alla pretesa dell’Amministrazione finanziaria, in esito ad eventuale accertamento con adesione o altra forma di “concordato” fiscale.
Ad esempio, con la sentenza nr. 8924/2015, la Cassazione ha stabilito che ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice non è vincolato, nella determinazione dell’imposta evasa, all’imposta risultante a seguito dell’accertamento con adesione o del concordato fiscale tra Agenzia e contribuente, purché indichi concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta.
Occorre, in sintesi, tenere distinta la nozione di pretesa tributaria da quella di profitto illecito (ed imposta evasa) nei reati tributari, proprio in virtù della circostanza per cui il procedimento amministrativo e quello penale sono del tutto autonomi.
È evidente, però, che in questo caso il giudice penale dovrà adeguatamente motivare tale scostamento.
Sul punto, nella sentenza nr. 19138/2014, la Corte ha affermato che, pur non essendo il giudice penale vincolato, nella determinazione dell’imposta evasa, all’imposta risultante a seguito dell’accertamento con adesione o del concordato fiscale tra Amministrazione finanziaria e contribuente, è tuttavia necessario che per potersi discostare dal dato quantitativo convenzionalmente accertato e tenere, invece, conto dell’iniziale pretesa tributaria dell’Erario, risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta.
[1] Si tratta, in sostanza, di tutte le fattispecie di reato previste dal D.Lgs. nr. 74 del 2000 fatta eccezione per la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2), l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8) e l’occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10).
[2] Da segnalare che la nuova previsione è certamente favorevole al reo con la conseguenza che essa troverà applicazione retroattiva, potendone così beneficiare tutti coloro i quali in passato, trovandosi in questa posizione (che non configura più “imposta evasa”) sono stati denunciati e hanno un procedimento penale pendente. Analogamente non verranno perseguiti coloro i quali, in futuro, dovessero ricevere simili contestazioni per violazioni commesse in passato. Nel diritto penale vige, infatti, il principio di retroattività della legge favorevole ed irretroattività della legge sfavorevole. Di conseguenza, le modifiche a favore del reo si applicheranno anche ai reati commessi prima dell’entrata in vigore della norma (mentre quelle sfavorevoli trovano applicazione solo alle condotte realizzate dopo l’effettiva entrata in vigore della norma).
[3] Ciò si desume anche dall’art. 3 del Codice di procedura penale, secondo cui la sentenza irrevocabile del giudice civile che ha deciso una questione sullo stato di famiglia o di cittadinanza ha efficacia di giudicato nel procedimento penale. Al di fuori di questi casi, dunque, il giudice penale resta libero nelle sue determinazioni.
[4] Si pensi ad esempio ad un accertamento induttivo, oppure ad un accertamento effettuato sulla base degli studi di settore o redditometro.
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A questo articolo è collegato anche --> La determinazione dell’imposta evasa ai fini penal-tributari (Parte II)
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