A cura dell'Avv. S. Mecca, Docente in area Legale

L’IMPOSTA EVASA TIENE CONTO DEI COSTI

Il concetto di «imposta evasa» ai fini penali non coincide necessariamente con quello di «imposta dovuta» ai fini amministrativi.

L’avverbio «effettivamente», contenuto nella definizione data dall’art. 1, lett. f), D.Lgs. 74/00, ne sottolinea appunto l’autonomia rispetto alla nozione fiscale: la legge penale, infatti, concentra l’attenzione sulla «effettività» delle situazioni e ciò non può essere influenzato dalla diversa disciplina della fattispecie in ambito amministrativo.

I due concetti presentano una differenza sostanziale: la quantificazione dell’imposta evasa in campo tributario determina l’emissione di un avviso di accertamento con la conseguente applicazione, a prescindere dall’entità dell’evasione, della sanzione amministrativa; in campo penale, la comunicazione di notizia di reato che innesca l’inizio delle indagini e la contestazione del reato si ha nei soli casi in cui l’imposta evasa superi le previste soglie di punibilità.

Attenendosi alle norme di natura amministrativa, si dovrebbe intendere per imposta evasa la differenza tra quella complessivamente determinata per effetto dei maggiori elementi attivi accertati e/o dei minori elementi passivi riscontrati rispetto a quelli dichiarati e l’imposta indicata nella dichiarazione.

Questa definizione appare però restrittiva, poiché non risponde al concetto di «effettività» introdotto dal legislatore. Così determinata, infatti, l’imposta dovuta corrisponderebbe alla realtà solo nei casi in cui, in presenza di ricavi non dichiarati, tutti i costi di esercizio fossero stati regolarmente registrati. Occorre, invece, rilevare come, nei casi di omessa fatturazione o sotto fatturazione, non siano presi in considerazione tutti i componenti negativi sostenuti per conseguire i maggiori ricavi accertati[1].

Ne deriva così che, ai fini di una corretta determinazione dell’imposta evasa ai fini penali, si dovrebbe tenere in considerazione il risultato economico realmente conseguito, frutto della contrapposizione dei ricavi e dei costi d’esercizio effettivamente sostenuti e deducibili nella determinazione del reddito.

Sul punto, già appena dopo l’emanazione del decreto 74/00, la Corte di Cassazione ha sancito la detraibilità dei “costi neri” - laddove il loro sostenimento sia dimostrato da elementi certi e precisi - nel caso di un accertamento induttivo per maggiori ricavi operato dall’Ufficio finanziario[2]. Il giudice penale, nell’accertare il superamento della soglia di punibilità, deve, pertanto, procedere all’esatta quantificazione degli elementi attivi effettivamente conseguiti e di quelli passivi effettivamente sostenuti, anche se non dichiarati.

Principio sostanzialmente simile si rinviene nella pronuncia nr. 8924 del 2015, in cui la Suprema Corte ha affermato che, ai fini del superamento delle soglie di punibilità nei reati tributari, le spese ed i costi concorrono a formare il reddito e sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultino da elementi certi e precisi, anche se non siano indicati nelle scritture contabili. Pertanto, se l’indagato si limita a dedurre costi risultanti dalle scritture contabili, qualora le stesse siano considerate inattendibili, i relativi costi non concorrono alla determinazione del reddito.

Un passo ulteriore sembra essere stato fatto nella recente pronuncia nr. 39379/2016. La Cassazione precisa infatti che ai fini penali, la determinazione dell’imposta evasa deve essere effettuata attraverso la considerazione di costi documentati o, in ogni caso, presumibili. Pertanto, qualora vengano rideterminati maggiori ricavi, occorrerà considerare anche i costi correlati, siano essi effettivamente provati o comunque presumibili.

In sostanza, nella determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa si deve tenere conto degli elementi negativi di reddito – provati o presumibili - anche sulla base dell’analisi e della contrapposizione tra ricavi e costi di esercizio, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale dell’ordinamento tributario. Così, contestando vendite non dichiarate, occorre considerare anche i costi d’acquisto pure non dichiarati dei beni.

Nel caso oggetto della sentenza, un contribuente era stato condannato per infedele dichiarazione avendo omesso di dichiarare vendite on line di beni. La Guardia di Finanza aveva quantificato il volume delle vendite attraverso i dati acquisti con specifica richiesta ad una società che gestisce un portale di vendite online. Giunto il procedimento in Cassazione, il contribuente lamentava che non erano stati debitamente considerati i costi sostenuti per la produzione del maggior reddito accertato, con la conseguenza che le imposte evase erano inferiori a quelle contestate ed alla soglia di punibilità.

La Cassazione ha accolto il ricorso, affermando che per imposta evasa deve intendersi l’intera imposta dovuta da determinarsi dalle risultanze acquisite nel processo penale e sulla base dell’analisi e della contrapposizione tra ricavi e costi di esercizio fiscalmente detraibili. Per la sua determinazione deve tenersi conto anche degli elementi negativi di reddito, siano essi documentati ovvero presumibili poiché correlati ai maggiori ricavi accertati.

La pronuncia assume rilievo perché può accadere che il Pm, conformandosi alla tesi dei verificatori, in presenza di maggiori ricavi o di dichiarazione omessa, calcoli l’imposta evasa sulla base dei soli ricavi lordi, senza tener conto dei costi comunque sostenuti i quali - come precisa la Cassazione - possono essere documentati dall’imputato o comunque presunti come nel caso esaminato.

Peraltro, ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione Irpef o Iva, il giudice nel determinare l’ammontare dell’imposta evasa, sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi di esercizio detraibili, può fare ricorso, ad esempio, alle risultanze delle indagini bancarie svolte nella fase dell’accertamento tributario, a condizione che proceda ad autonoma verifica di tali dati indiziari unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza della condotta criminosa, privilegiando il dato fattuale reale rispetto a quello di natura meramente formale che caratterizza l’ordinamento fiscale[3].

IMPOSTA EVASA E RITENUTE EFFETTUATE DAL SOSTITUTO D’IMPOSTA

Un altro profilo estremamente rilevante attiene alla necessità di scomputare dal calcolo dell’imposta evasa le ritenute effettuate dal sostituto d’imposta per conto del sostituito ma successivamente non versate all’Erario.

La nozione di imposta evasa contenuta nell’art. 1 del D.Lgs. 74/00 specifica infatti che “per imposta evasa deve intendersi la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione … al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta (…)”.

Sulla base di tale definizione emerge chiaramente che è necessario, per quantificare l’imposta evasa, tenere conto delle varie ritenute di imposta effettuate al contribuente da parte di qualunque sostituto.

Cosa accade, però, nel caso in cui il sostituto d’imposta effettui la ritenuta ma non la versi successivamente al fisco?

La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza nr. 2256 del 18 gennaio 2017, ha affermato che la ritenuta d’acconto effettuata ma non versata al fisco non può essere scomputata dalla determinazione dell’imposta evasa ai fini penali.

Nella specie, un commercialista veniva indagato per il reato di dichiarazione infedele.

In particolare, allo stesso era contestato di aver indicato, nella dichiarazione per l’anno 2012, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo.

Nell’ambito del procedimento penale, il Gip disponeva il sequestro preventivo sui beni del professionista e la misura veniva confermata anche dal tribunale del riesame.

Il commercialista proponeva ricorso per Cassazione, sostenendo che non era stata superata la soglia di punibilità prevista per il reato di dichiarazione infedele e che il tribunale del riesame aveva interpretato in maniera inesatta la nozione di imposta evasa. In particolare, infatti, dagli elementi attivi asseritamente evasi dal contribuente avrebbero dovuto essere scomputate le ritenute d’acconto effettuate per conto del commercialista da una società sua cliente, anche se in realtà tale ritenuta non era mai stata versata dalla società stessa al fisco.

Secondo il ricorrente, infatti, il concetto di imposta evasa deve necessariamente tenere conto delle entità monetarie versate dal contribuente al sostituto d’imposta, posto che il patrimonio del soggetto agente subisce un decremento nel momento in cui la ritenuta stessa è operata. A nulla rileverebbe il fatto che il sostituto d’imposta, una volta effettuata la ritenuta, non l’abbia poi versata materialmente all’erario: dal lato penalistico, infatti, non si può essere ritenuti responsabili per il fatto, eventualmente illecito, commesso dal terzo. In particolare, quindi, il “sostituito” non avrebbe alcun obbligo specifico una volta che il “sostituto” ha effettuato materialmente la ritenuta, in quanto ciò equivarrebbe ad estinzione da parte del primo dell’obbligazione tributaria fino alla concorrenza dell’imposta della ritenuta.

La Cassazione ha respinto il ricorso dell’indagato, chiarendo anzitutto che il sostituito (nella specie il commercialista) non è sottratto dagli obblighi dichiarativi a suo carico se il sostituto non adempie. Il fatto che l’art. 64, comma 1, del DPR 600/73 definisca il sostituto d’imposta come colui che “in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altre…ed anche a titolo di acconto”, non toglie che anche il sostituito debba ritenersi originariamente quale obbligato solidale d’imposta e quindi soggetto al potere di accertamento ed a tutti i conseguenti oneri. Ne deriva, quindi, che in caso di mancato versamento della ritenuta d’acconto da parte del sostituto, al pagamento del tributo è obbligato anche il sostituito.

Pertanto, la somma corrispondente alla ritenuta d’acconto può essere detratta, da parte del sostituito, dall’ammontare complessivo dell’imposta dovuta solo se sia stata effettivamente corrisposta all’Erario dal sostituto d’imposta, entro il termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi. Ciò in quanto l’art. 1 del D.Lgs. 74/00 parla testualmente di “somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di ritenuta” ed inoltre la ratio della norma è proprio quella di evitare che gli obblighi dichiarativi siano elusi sulla base di collusioni tra sostituto e sostituito in danno dell’erario.

ALCUNE CONSIDERAZIONI

E’ dunque ormai principio pacifico che l’imposta evasa deve essere determinata in maniera autonoma dal giudice del procedimento penale. Tale determinazione può eventualmente anche discostarsi ed entrare in contraddizione con quella determinata dal fisco (o rideterminata a seguito di istituti deflattivi del contenzioso), ovvero dal giudice tributario. A tal fine è però necessario che il giudice penale ne dia adeguata motivazione.

Inoltre, è evidente che la determinazione dell’imposta evasa ai fini penali debba tenere conto anche degli elementi negativi del reddito – siano essi certi o presumibili – purché deducibili secondo le normali regole tributarie. Tale principio sembra ormai essere abbastanza pacifico nella giurisprudenza della Cassazione anche se spesso viene ignorato dai giudici del merito, i quali si limitano a considerare i ricavi omessi, senza prendere nella dovuta considerazione i costi relativi.

E’ evidente che, in tal caso, non si avrà – così come richiesto dalla normativa – una determinazione dell’imposta evasa “effettivamente” dovuta. E’ pertanto opportuno che un’eventuale difesa sia volta a dare il giusto risalto agli elementi negativi del maggior reddito accertato al contribuente/imputato, anche e soprattutto ai fini della determinazione del superamento della soglia di punibilità del reato.

Quanto alle ritenute effettuate, le stesse possono essere scomputate dall’ammontare dell’imposta evasa solo se effettivamente versate al fisco da parte del sostituto d’imposta.


[1] Nella pratica, infatti, a fronte di ricavi non fatturati, sono normalmente sostenuti costi non contabilizzati, relativi all’acquisto dei beni rivenduti in nero.

[2] Cass. nr. 640/2001.

[3] Si veda a tal proposito la recente sentenza nr. 39789/2016 in cui la Corte ha anche ribadito la piena autonomia del giudice penale nell’accertare e determinare l’imposta evasa: l’attività svolta dall’agenzia fiscale, in sostanza, non è vincolante per il magistrato, che può anche giungere a conclusioni opposte rispetto alle Entrate.

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A questo articolo è collegato anche --> La determinazione dell’imposta evasa ai fini penal-tributari (Parte I)

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