La doppia natura della concorrenza sleale, tra Codice civile e diritto europeo
A cura di A. Daniela e F. Claudio (partecipanti in area Legale)
La disciplina e la tutela della concorrenza avvengono, nell’ordinamento italiano, secondo due diverse direttrici: vi è una tutela di natura codicistica, la quale trova il proprio fondamento nelle disposizioni del Titolo X del Libro V (dedicato al lavoro), rubricato “Della disciplina della concorrenza e dei consorzi” (artt. 2595 ss. c.c.) ed una di origine più prettamente economica, benché sempre giuridica, delineata dalla legge 10 ottobre 1990, n. 287, “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”.
La diversa collocazione temporale nonché sistematica nell’ordinamento sono chiari indici di un’evoluzione della materia e delle ragioni prese a fondamento dei differenti interventi da parte del Legislatore, benché in totale assenza di una definizione normativa della nozione di concorrenza. Infatti, la normazione prevista dagli artt. 2595 ss. c.c. riflette una concezione di concorrenza intesa non tanto come fattore di sviluppo economico e di benessere sociale,1 bensì come conflitto tra imprenditori, svolto nell’esercizio della libertà economica mediata però da una parte da una concezione ancora dirigista dell’economia (frutto del resto dell’epoca storica in cui fu scritto il Codice civile) e dall’altra dall’importanza ed “intangibilità” all’epoca attribuita al rapporto contrattuale.2 Le suddette norme, ed in particolare gli artt. 2598 ss., infatti, non sembrano avere come scopo la tutela del mercato e in ultima analisi dei consumatori, bensì il corretto funzionamento di tale conflitto, come ben evidenzia la norma di chiusura dell’art. 2598, n. 3), per cui compie atti di concorrenza sleale chiunque “si vale direttamente o indirettamente di […] ogni mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”, quindi sia attraverso comportamenti scorretti che mediante falsificazione dell’informazione che arriva al consumatore finale, influendo sulla valutazione e il giudizio nell’acquisto di un bene o un servizio, con il conseguente compimento del cd. illecito concorrenziale.
Partendo dal presupposto per cui i soggetti coinvolti (gli imprenditori) debbano offrire beni o servizi rivolti alla stessa clientela o volti a soddisfare lo stesso bisogno, l’art. 2598 c.c.3 considera espressamente una serie di comportamenti costituenti espressione di concorrenza sleale, vale a dire:
- atti di confusione: l’utilizzo di nomi o segni distintivi ovvero l’imitazione servile di prodotti di uno o più concorrenti in modo idoneo a produrre confusione con i nomi, i segni distintivi, i prodotti o l’attività del concorrente;
- atti di denigrazione e di vanteria: volti ad apportare discredito ai prodotti o all’attività di un’azienda concorrente oppure ad appropriarsi dei pregi di questi;4
- atti contrari alla correttezza professionale5: tra questi vi sono il dumping (vendita di prodotti a basso costo per eliminare i concorrenti), lo storno dei dipendenti (collegato allo sviamento della clientela, atto con cui un’azienda istiga alla dimissione i dipendenti una concorrente al fine di assumerli per poter nuocere l’azienda rivale), la violazione del patto di concorrenza con il quale l’ex dipendente si impegna, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, a non svolgere attività concorrenziale nei confronti dell’ex datore di lavoro, il tacere un conflitto di interessi da parte di un soggetto che fa parte contemporaneamente di due aziende rivali, lo spionaggio industriale (diffusione di segreti industriali atti a gettare discredito nei confronti dell’azienda rivale).6
La tutela approntata dall’ordinamento all’imprenditore asseritamente danneggiato da atti di concorrenza sleale segue un doppio binario: ex art. 2599 c.c. può adire il tribunale ordinario per ottenere una sentenza inibitoria volta all’eliminazione degli effetti dei suddetti atti, mentre ex art. 2600 c.c. potrà richiedere il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c.7 invocando l’accertamento non tanto di dolo o di colpa del convenuto quanto dei soli atti di concorrenza sleale, a seguito del quale, ai sensi dell’art. 2600, comma 3, la colpa si presume, con inversione dell’onere della prova in capo al convenuto.
La seconda tipologia di concorrenza trae le proprie origini dalla scienza economica, e specialmente dalla microeconomia, per cui il massimo benessere collettivo si otterrebbe all’interno di un mercato in situazione di cd. concorrenza perfetta, nel quale il prezzo di beni e servizi deriverebbe dall’incontro tra domanda e offerta, mentre nullo sarebbe il potere di influenza dei produttori su questo (al contrario si avrebbe un monopolio quando il produttore concentra nelle proprie mani l’offerta e di conseguenza decide il prezzo di vendita dei beni).8 Sorti i primi esempi di legislazione a tutela della concorrenza, dette anche leggi antitrust, negli Stati Uniti (con lo Sherman Act del 1890), essi si sono diffusi in Europa e successivamente a livello globale dapprima con alterne fortune, si pensi alle politiche economiche dirigiste e protezionistiche dell’Europa del primo Novecento, e successivamente in maniera ineluttabile. Per quanto concerne tali legislazioni, l’ordinamento italiano si presenta in netto ritardo rispetto agli altri paesi industrializzati, in ragione degli ostacoli posti da interessi e ideologie delle principali forze politiche del dopoguerra, riflesse anche nella struttura dell’art. 41 Cost. e nel compromesso eseguito tra principi di libero mercato ed intervento statale.9
Così, sulla spinta dell’inizio della globalizzazione nonché della montante normativa comunitaria,10 con la l. 10 ottobre 1990, n. 287, recante “norme per la tutela della concorrenza e del mercato”, anche l’Italia si è dotata di una disciplina organica a tutela di “quel processo dinamico di rivalità tra le imprese che sta alla base dell’efficace funzionamento dei mercati”.11 Il ritardo con cui il nostro Paese si è dotato di tale normativa può essere visto con favore nella considerazione che il Legislatore, non volendo proporre modelli innovativi, ha ripreso pedissequamente le disposizioni dei Trattati e delle normative europee in materia di antitrust, disponendo inoltre l’obbligo di interpretazione delle norme italiane ai sensi dei principi comunitari in tema di tutela della concorrenza.12 Ciò a maggior ragione è positivo se si pensa che in tal modo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato,13 autorità autonoma e indipendente dal potere esecutivo, ha potuto ereditare fin da subito l’esperienza ed i principi elaborati dalla prassi e dalla giurisprudenza comunitaria in decenni di travagliata maturazione.14 La suddetta normativa è volta ad evitare la nascita di monopoli o oligopoli15 contrastando comportamenti illeciti quali le intese restrittive della concorrenza tra imprese, l’abuso di posizione dominante da parte di operatori economici in condizione di particolare forza nel mercato ed il fenomeno delle concentrazioni, non vietate ma controllate preventivamente per evitare lo svilupparsi di posizioni dominanti.
1. Tale sembra essere l’idea più antica di concorrenza: in questa visione del mondo, essa non viene individuata tanto nel- la competizione, quanto piuttosto della confluenza nel mercato di individui liberi di comprare e vendere, secondo i loro bisogni e la loro libera volontà. Sul punto cfr. M. LIBERTINI, Il diritto della concorrenza dell’Unione Europea, Mila- no, Giuffré, p.5 o Enciclopedia Treccani, che la definisce “situazione di mercato con ampia libertà di accesso all’attività d’impresa, possibilità di libera scelta per gli acquirenti (in particolare, i consumatori) e, in generale, la possibilità per ciascuno di cogliere le migliori opportunità disponibili sul mercato, o proporre nuove opportunità, senza imposizioni da parte dello Stato o vincoli imposti da coalizioni d’imprese.”
2. Tant’è vero che l’art. 2596 c.c. individua nel patto scritto lo strumento per limitare, benché con limitazioni settoriali e temporali, la concorrenza tra più soggetti economici. Cfr. F. GHEZZI, G. OLIVIERI, Diritto antitrust, Torino, Giappi- chelli, p. 10.
3. Rendendo esplicita l’inderogabilità della tutela di marchi, brevetti e dei segni distintivi.
4. Ad esempio, attribuendo ai propri prodotti qualità che essi non hanno per farli preferire a quelli del concorrente.
5. La giurisprudenza ritiene che per valutare il requisito della correttezza professionale si debba tenere conto delle regole contenute nel codice di autodisciplina pubblicitaria, quali espressione dell’etica professionale e commerciale, alla cui tutela la norma civilistica è finalizzata
6. Le lacune che presenta la regolamentazione ex artt. 2598-2601 c.c. si ritiene che debbano essere colmate con i principi in materia di responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c.
7. Sul punto vedi Cass. Civ. n.22034/2016 che ha stabilito la prova da parte dell’imprenditore danneggiato dell’entità dei danni subiti sulla base dei principi generali che regolano il risarcimento ex art. 2043 cc
8. Curiosamente, già Aristotele descriveva il monopolio tra i comportamenti delittuosi nel concetto di monopolio e li de- finisce come qualsiasi artificio posto in essere al fine di aumentare, al di sopra del livello naturale, i prezzi che derive- rebbero dal libero incontro della domanda e dell’offerta. M. LIBERTINI “Il diritto della concorrenza dell’unione euro- pea”
9. Cfr. F. GHEZZI, G. OLIVIERI, op.cit., p. 21. Tant’è vero che la parola concorrenza non compare nel testo originario della Carta. Sul punto Cfr. C. BEDOGNI, P. BARUCCI, 20 Anni di Antitrust: L’evoluzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Torino, Giappichelli, p. 218.
10. Si pensi al combinato disposto dell’art. 2 e dell’art. 3 del Trattato di Roma, ai sensi dei quali tra i compiti della Co- munità Europea vi era la promozione di un alto grado di competitività in un “regime inteso a garantire che la concorren- za non sia falsata nel mercato interno”.
11. Così F. GHEZZI, G. OLIVIERI, op.cit., p. 2
12. Ibid., p. 25.
13. Disciplinata dall’art. 10 ss, l. 287/1990.
14. V. P. Fattori, M. Todino, “La disciplina della concorrenza in Italia”, p. 15
15. Forma o situazione di mercato caratterizzata, mentre vi è una concorrenza perfetta tra compratori, dalla presenza di un numero limitato di venditori.
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Ultima modifica il 21/04/2020
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