Le intese restrittive della concorrenza: come prevenirle

A cura di Giusj Maria NardiniEleonora PostacchiniEleonora ScozziErmelinda CioffiGladys Rosa Cabrera Carlos , Piero Cecere (partecipanti all’Executive Master in Giurista d’Impresa – RM) 


INTRODUZIONE

Prima di parlare di intese restrittive della concorrenza è bene spendere due parole nel delineare il paradigma legislativo di riferimento: il diritto Antitrust.

Diritto di matrice angloamericana, fece la sua prima apparizione nell’era moderna in una legge emanata in Canada nel 1889, seguita l’anno successivo dallo Sherman Act statunitense. Tale normativa mise un freno alla portata dimensionale che avevano raggiunto i cartelli con la fondazione dello Standard Oil Trust[1].

Per vedere nascere anche in Europa l’attenzione per tale materia, dobbiamo attendere la fine della seconda guerra mondiale e la stipulazione del trattato CECA[2], che viene infatti considerato il primo vero e proprio atto legislativo in materia Antitrust nel nostro continente.

Venendo infine al nostro ordinamento, l'esigenza di una disciplina che andasse a regolare la materia è stata avvertita solo successivamente, quando l'attenzione del legislatore traslò sulla tutela del soggetto nei confronti del quale sarebbero confluite tutte le implicazioni, positive o negative delle politiche concorrenziali delle imprese: il consumatore[3].

Finalità principale della normativa Antitrust è, infatti, la tutela di tutti i consumatori da quel “pericolo democratico” insito nella posizione di forza di quel soggetto, o gruppo di imprese, che, trovandosi ad agire come monopolisti, anche di fatto, potrebbero assumere nel mercato di riferimento.

A beneficiare dei positivi effetti della normativa Antitrust sono però anche le imprese stesse. Infatti, grazie alla tutela della libera concorrenza vengono stimolate la crescita, l’innovazione ed il progresso.

Garantire la libera concorrenza e tutelare il regolare funzionamento del mercato sono dunque gli obiettivi degli artt. 2 e 3 della l. 287/90 che, con un ritardo di quasi 50 anni rispetto agli altri Stati membri, introdusse finalmente la normativa Antitrust anche in Italia.

Tali articoli riprendono pedissequamente la disciplina comunitaria[4], oggi sancita negli artt. 101 e 102 del TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), facendo anche tesoro della copiosa giurisprudenza nel frattempo prodottasi.

LE INTESE RESTRITTIVE DELLA CONCORRENZA

Illecito Antitrust” per eccellenza sono le intese restrittive della concorrenza, ovvero quegli accordi e/o pratiche, tra imprese in diretta concorrenza, nonché deliberazioni dei consorzi o associazioni di imprese, capaci, mediante il coordinamento dei comportamenti di chi vi partecipa, di procurare effetti distorsivi del mercato analoghi a quelli riscontrabili in una situazione di monopolio, in quanto aventi come “oggetto o effetto quello di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o di una sua parte rilevante” (art. 2 l. 287/90).

Il divieto degli accordi e delle pratiche concordate restrittive della concorrenza si fonda sul principio secondo cui ciascuna impresa dovrebbe determinare in totale autonomia la propria condotta e strategia di mercato. La distinzione tra accordi e pratiche concordate opera proprio sul piano dell’intensità della condotta e della sua modalità di manifestazione. Infatti, sebbene entrambe le fattispecie abbiano l’effetto di ridurre l’incertezza tra i concorrenti, nel primo caso il coordinamento si estrinseca attraverso un accordo tout court (espresso o tacito), mentre per le pratiche concordate si assiste a condotte che aumentano la trasparenza del mercato facilitando la prevedibilità del comportamento dei competitor[5].

Non è tuttavia da escludere, in modo assoluto, che in casi specifici alcuni accordi di cooperazione orizzontali, tra le imprese dello stesso livello della catena di produzione (es. accordi in materia di risorse e sviluppo e accordi di specializzazione, oggetto di appositi regolamenti di esenzione CE), possano costituire soprattutto per le piccole-medie imprese un mezzo idoneo a produrre benefici effetti economici anche per la collettività (v. la Comunicazione della Commissione 14.01.2011).

Al contrario, si ritiene, in via generale, che gli accordi verticali restrittivi della concorrenza, tra le imprese che si trovano a stadi diversi della filiera e che dunque non siano in concorrenza diretta tra loro come produttore e distributore (es. accordi di distribuzione esclusiva, di franchising, ecc.), siano esposti ai divieti di cui all’art. 101 TFUE soltanto episodicamente e quando siano produttivi di effetti riconducibili ad una ripartizione dei mercati e della clientela. È opinione diffusa, infatti, che le intese verticali siano meno nocive delle orizzontali per il mercato e per la concorrenza.

Difatti il regolamento n. 330/2010 riconosce ad alcune tipologie di intese verticali la valorizzazione del mercato, e ne disconosce la nocività. Tale regolamento, stabilisce delle presunzioni dirette ad esemplificare la valutazione in ordine ala nocività dell'intesa all'interprete: analizzando rilevanza delle imprese facenti parte dell'intesa, qualora non superino il 30% della quota di mercato, la nocività è esclusa a priori (ricadendo le stesse nelle esenzione dettata dal paragrafo 3 dell'articolo 101 TFUE), viceversa occorrerà per valutare la legittimità di questi accordi, un'analisi caso per caso[6].

Se un accordo di cooperazione orizzontale non è restrittivo della concorrenza per oggetto, si deve esaminare se abbia significativi effetti restrittivi sulla concorrenza. Devono essere presi in considerazione sia gli effetti reali che quelli potenziali. In altre parole, deve essere almeno probabile che l’accordo produca effetti anticoncorrenziali. Affinché un accordo abbia effetti restrittivi sulla concorrenza ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, esso deve avere un significativo impatto negativo reale o probabile su almeno uno dei parametri della concorrenza nel mercato, quali prezzo, produzione, qualità dei prodotti, varietà dei prodotti o innovazione. Gli accordi possono produrre tali effetti quando riducono sensibilmente la concorrenza tra le parti dell’accordo o tra le parti e terzi.

Come si è rilevato, per verificare la sussistenza di un infrazione antitrust mediante un intesa, è necessario accertare che le intese agiscano all’interno di un “mercato nazionale o di una sua parte rilevante”. L’individuazione del mercato rilevante sarà utile, infatti, nella valutazione della gravità della condotta posta in essere.

Il mercato rilevante individua l’ambito, merceologico e geografico, entro il quale due o più imprese possono dar vita ad una intesa ovvero una singola impresa può porre in essere condotte che abusano della posizione di rilevanza ottenuta nel mercato.

I primi riferimenti alla nozione di mercato rilevante si rinvengono nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, che individuava nel mercato due dimensioni: il mercato del prodotto, ossia “l'area nella quale sono compresi tutti i prodotti e/o servizi che sono intercambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell'uso cui sono destinati”; il mercato geografico, ossia "l'area nella quale le imprese in causa forniscono o acquistano prodotti o servizi, nella quale le condizioni di concorrenza sono sufficientemente omogenee" tale che può esser tenuta distinta dalle aree geografiche contigue[7].

È utile osservare inoltre che l’accordo in cui si sostanzia la categoria in esame è un atto giuridico la cui esistenza presuppone necessariamente la presenza di almeno due imprese, ciò la distingue dalla posizione dominante il cui abuso può consistere nel comportamento di una sola persona; altro elemento caratterizzante e costitutivo dell’intesa è l’oggetto o l’effetto con finalità restrittive della concorrenza. Tuttavia al fine di non cristallizzare una nozione che potrebbe nel corso del tempo venire superata, la disciplina è stata costruita gradualmente dalla giurisprudenza.

La nozione di impresa che ne è derivata è molto più ampia di quella accolta dal nostro codice civile (art. 2082 c.c.), al punto da farvi rientrare anche la figura del professionista. La valutazione deve infatti essere effettuata sotto un profilo puramente economico. Da ciò discende che qualsiasi entità che esercita un’attività economica, a prescindere dalla sua forma giuridica, è sottoposta alla normativa Antitrust.

Ulteriore conseguenza di tale nozione di impresa fa sì che le intese infra-gruppo, ovvero tra società appartenenti alla medesima entità economica, non siano rilevanti in una prospettiva Antitrust e siano quindi pienamente lecite.

Sovente la giurisprudenza è intervenuta per chiarire anche le modalità in cui possa verificarsi un'unione di condotte tra imprese. Nella sentenza Suiker Unie del 1975, la Corte di Giustizia ha affermato il principio in forza del quale la determinazione della condotta, seguita da ogni operatore economico sul mercato comune, in vista del coordinamento di un attività, deve essere “autonoma”, non richiedendosi l’elaborazione di un vero e proprio piano[8].

Successivamente nel 2009 nella pronuncia T-Mobile la Suprema Corte ha affrontato il tema riguardante il numero dei contatti necessari per potersi parlare di intesa, concludendo che “ciò che rileva, non è tanto il numero tra gli operatori interessati, quanto il fatto di accertare se il contatto, o i contatti, che sono avvenuti abbiano consentito a questi ultimi di tenere conto delle informazioni scambiate con i concorrenti per determinare il proprio comportamento sul mercato e di sostituire scientemente una cooperazione pratica tra di loro ai rischi della concorrenza”. All'interno della stessa ha altresì affermato il principio per il quale anche il singolo contatto, se valutabile come lesivo, sia considerabile come un'intesa[9].

Infine, è utile ricordare che la Corte di Lussemburgo ha affermato la necessità di un nesso di causalità tra la condotta lesiva e l'evento, ritenendo che, ove valutare se un accordo abbia un oggetto anticoncorrenziale, occorra tener conto del contenuto delle disposizioni dell’accordo, gli obiettivi perseguiti e il contesto economico e giuridico di cui fa parte. Inoltre, anche laddove l’intenzione delle parti non sia un fattore necessario per determinare se un accordo abbia un oggetto anticoncorrenziale, la Commissione può tenere conto di tale aspetto nella propria analisi.


[1] Lo “Sherman Act” del 1890 fu la prima legge federale emanata in risposta a quella che appariva essere una concentrazione del potere economico in grandi gruppi industriali. Alcune attività commerciali in forte sviluppo, tra le quali in particolare la ferroviaria, petrolifera e del tabacco, avevano deciso di evitare la reciproca concorrenza unendo le forze e le varie società concorrenti, consolidandole in entità più grandi. Il c.d. “Standard Oil Trust”, che fu costituito nel 1882, è stato il precursore delle odierne società partecipate (c.d. “holding company”). Le azioni di nove società petrolifere fino allora in concorrenza tra loro, vennero fatte confluire e gestire da un fedecommesso (c.d. “trust”) costituito ad hoc. Il consiglio dei fiduciari prendeva le decisioni per tutte le nove società riunite nel trust, dando così vita ad un monopolio. Lo Sherman Act intendeva limitare la concentrazione di potere economico di questi trust. (Dal sito della ICE – Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane, istituita dall'art. 14, cc.17-27, DL n.98 del 06.07.11, convertito in L. n.111 del 15.07.11, come sostituito dall'art. 22, c.6, DL n.201 del 06.12.11, convertito in L. n.214 del 22.12.11 e successive modifiche, come ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, sottoposto ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministero dello sviluppo economico che li esercita, per le materie di rispettiva competenza, d'intesa con il Ministero degli affari esteri e sentito il Ministero dell'economia e delle finanze; http://www.ice.gov.it/paesi/america/statiuniti/normativa_concorrenza.pdf). 

[2] Artt. 65,66 trattato CECA.

[3]  “Persona fisica che agisce per scopi estranei rispetto all’attività imprenditoriale commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta” (art. 3 d.lgs. 206/05 e succ. modd, "Codice del consumo, a norma dell'articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229"). 

[4] Una differenza risiede nella diversa portata geografica della restrizione di cui all’art. 101 TFUE e 2 l. 287/90. Invero, mentre l’art. 101 TFUE richiede che affinchè un’intesa possa essere considerata contraria al trattato essa debba poter pregiudicare il commercio tra Stati membri, l’art. 2 della l. 287/90 fa riferimento a un impatto sul mercato nazionale o una sua parte rilevante.

[5] La differente categorizzazione tra accordi e pratiche concordate non si traduce in un obbligo per l’Autorità di stabilire in modo univoco la natura della concertazione (in tal senso decisioni della Commissione 99/60/CE, 99/210, 94/815/CEE e altre Gli accordi di distribuzione commerciale nel diritto della concorrenza, V. Auricchio, M. Padellaro, P. Tomassi, CEDAM 2013, p.6 ss.

[6] L’esenzione è tipicamente il risultato di una valutazione caso per caso finalizzata a verificare se le condizioni di cui all’art. 101, par. 3 TFUE siano soddisfatte e, in particolare, che l’intesa:

a) contribuisca al miglioramento della produzione o della distribuzione o a promuovere il progresso tecnico o economico;

b) non imponga restrizioni che non siano indispensabili;

c) non comporti l’eliminazione della concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti/servizi oggetto del contratto.

[7] Definizioni della Comunicazione della Commissione n.372/1997.

[8] Qualsiasi forma di consenso tra le parti sulla futura condotta di mercato il cui oggetto o effetto restringa la concorrenza può essere ricompresa nella nozione di intesa. È pertanto sufficiente che le imprese abbiano condiviso consapevolmente un modo di agire comune sul mercato (“Willful meeting of mind”, CGUE 8 luglio 1999, Hercules Chemicals NV c. Commissione, Causa C-51/92 P). 

[9] A tal riguardo lo standard è evoluto nel tempo. Inizialmente era infatti richiesta la reciprocità di comunicazioni tra imprese, mentre in tempi successivi è stato ritenuto che la mera trasmissione unilaterale di informazioni riservate e considerate taboo (es. su prezzi futuri) fosse sufficiente purchè consapevole.  

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