Art. 2391 c.c.

A cura di V. Baronchelli e D. Vinciguerra (partecipanti dell'Executive Master in Giurista d'Impresa)


Con sentenza n. 126 depositata il 7 gennaio 2019, la Corte di Cassazione è tornata ad esprimersi in merito al ruolo del collegio sindacale nella corporate governance, con particolare riferimento al suo dovere di controllo sull’amministrazione della società.

Il caso di specie vede, infatti, coinvolto uno dei membri del collegio sindacale di una nota società di capitali, il quale veniva condannato dalla Consob al pagamento di sanzioni pecuniarie complessive per un valore pari ad € 90.000, a fronte della violazione degli articoli 149 comma 1 T.U.F. in relazione all'art. 2391 c.c., per aver omesso di vigilare sui rapporti di un amministratore con un fornitore e sul possibile conflitto di interessi dello stesso. La delibera dell’autorità di vigilanza veniva impugnata innanzi alla Corte d'appello, la quale, ribadita la sanzione inflitta, confermava la responsabilità dei sindaci in quanto “non avevano attivato alcuni dei poteri informativi, ispettivi e reattivi a loro riconosciuti dall'ordinamento, pur avendo la funzione Audit rilevato e segnalato - anche con toni decisamente allarmati - le gravi criticità relative al fornitore”.

La conclusione della Corte di Appello è stata successivamente confermata dalla Corte di Cassazione, la quale, nel proprio iter decisionale, ha disaminato in un’ottica del tutto nuova le modalità di esplicazione del potere di controllo del collegio sindacale sull’amministrazione della società alla luce di una peculiare interpretazione dell’art. 2391 c.c., cui consegue l’applicazione della norma codicistica a casi in passato esclusi da unanime giurisprudenza.

Innanzitutto, giova premettere come il collegio sindacale è chiamato ad esercitare la funzione di vigilanza sull’amministrazione della società in termini di applicazione della legge e dello statuto con la speciale diligenza richiesta dalla natura dell’attività esercitata (artt. 2403 e 2407 c.c.).

In particolare, i sindaci sono tenuti a vigilare sia sul rispetto di parametri normativi, statutari e di correttezza, sia sull’adeguatezza del sistema di controllo interno ed amministrativo-contabile al fine della corretta rappresentazione della gestione della società. Tale controllo non si limita a meri aspetti formali, bensì deve essere espletato in modo sostanziale, anche attraverso una diligente gestione dei flussi informativi provenienti dall’organo amministrativo, dal comitato controllo e rischi (se previsto) e dalle altre funzioni e ruoli di controllo[1].

Sotto il profilo operativo, gli strumenti di legge a disposizione dei sindaci consentono a costoro di procedere -in qualsiasi momento ed anche individualmente- ad atti di ispezione e di controllo, nonché a richieste di notizie agli amministratori, le quali si aggiungono al dovere di questi ultimi di informare tempestivamente il collegio sindacale sull’attività svolta e sulle operazioni di maggiore rilevanza economica, finanziaria o patrimoniale ex art. 150 T.U.F.

Nell’esercizio dei doveri di vigilanza, la legge impone ai sindaci l’adozione di elevati standard di perizia, la cui inosservanza può essere fonte di responsabilità, anche sotto il profilo amministrativo, in relazione ai poteri pubblicistici attribuiti alla Consob nei confronti delle società quotate. È opportuno ricordare, peraltro, che si tratta di una responsabilità per fatto proprio, ancorché basata sul presupposto che la violazione dell’obbligo di vigilanza sia eziologicamente collegata a un episodio di mala gestio altrimenti evitabile.

Al riguardo, con specifica attenzione al caso in esame, l’autorità di vigilanza, dapprima, e i giudici di merito e di legittimità, poi, hanno riconosciuto una responsabilità del sindaco per aver omesso di esercitare i propri poteri reattivi pur in presenza di una asserita violazione da parte di un amministratore degli obblighi informativi previsti dall’art. 2391, comma 1, c.c.

La peculiarità della pronuncia in esame, d’altronde, risiede proprio nella innovativa interpretazione dell’art. 2931 c.c. accolta dalla Suprema Corte.

Infatti, nonostante la giurisprudenza sia stata sempre costante nell’interpretare l’art. 2391 c.c. nel senso di ricollegare l’obbligo d’informativa all’esercizio di funzioni deliberative, con la sentenza n. 126/2019 la Corte di Cassazione ha dato avvio a un nuovo orientamento in materia di potere di controllo del collegio sindacale sull’amministrazione della società.

Sulla base della nuova interpretazione dell’art. 2391 c.c., nel caso di specie, la Suprema Corte ha affermato che la contestazione mossa nei confronti dei sindaci trovasse fondamento nella loro condotta di prolungata inerzia malgrado “le irregolarità fossero già emerse e fossero state segnalate da altra funzione aziendale interna”, facendo altresì perno sulla passata giurisprudenza che ha evidenziato come i sindaci debbano utilizzare tutti i poteri di indagine ad essi attribuiti, non limitandosi alle informazioni assunte o fornite dagli amministratori, con la conseguenza che “il lamentato adempimento parziale dell’organo amministrativo non vale ad escludere la loro responsabilità[2].

Sotto altro profilo, per quanto attiene all’interpretazione della norma di cui al primo comma dell’art. 2391 c.c., si evidenzia come prima della recentissima sentenza oggetto di attuale disamina nessun orientamento contrario si era mai venuto a configurare in merito all’inapplicabilità dell’art. 2391 c.c. nel caso di conflitto di interessi dell’amministratore, in mancanza di una delibera del consiglio di amministrazione, essendosi sempre ricondotta quest’ultima fattispecie alla disciplina generale di cui all’art. 1394 c.c., il quale colloca il manifestarsi del conflitto di interessi al momento dell’esercizio del potere rappresentativo, anziché a quello dell’esercizio deliberativo[3].

Discostandosi dalla consolidata giurisprudenza, con sentenza n. 126/2019, la Corte di Cassazione ha individuato nuove argomentazioni per ritenere applicabile la norma di cui al primo comma dell’art. 2391 c.c.  al caso sopra descritto. Nello specifico, la Suprema Corte ha motivato il nuovo orientamento assunto sulla base del dovere di trasparenza, che dovrebbe prescindere dal ruolo assunto dall’amministratore nella organizzazione sociale e sussistere indipendentemente dall’organo competente a esaminare l’operazione, trattandosi di un dovere rivolto nei confronti degli “altri amministratori e del collegio sindacale”. Un tale dovere - a dire della Corte - non dovrebbe essere necessariamente correlato a una deliberazione del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo, posto che le ipotesi delineate nel secondo e terzo comma della norma avrebbero carattere eventuale e non inciderebbero sul dovere di comunicazione imposto dal primo comma. Inoltre, il dovere di trasparenza prescinderebbe dalla eventuale conoscibilità aliunde della notizia, considerato che l’informazione richiesta dovrebbe essere specificamente data agli altri amministratori e al collegio sindacale in correlazione con l’operazione, indipendentemente dal fatto che la notizia preceda la riunione o possa essere data nel corso della stessa.

Giova peraltro rilevare che la pronuncia in esame non è esente da profili di criticità.

In primo luogo, è quantomeno dubbio che il sindaco, nell’esercizio diligente dei propri doveri di vigilanza, avrebbe potuto concretamente riscontrare e valutare la violazione da parte dell’amministratore del precetto contenuto all’art. 2391, posto che tale norma, sino alla pronuncia de qua, era stata costantemente interpretata nel senso di ricollegare gli obblighi informativi all’esercizio di funzioni deliberative (circostanza che pare dubbio ravvisarsi nel caso di specie).

In secondo luogo, un ulteriore aspetto meritevole di attenzione, su cui la pronuncia in commento si sofferma, è rappresentato dall’applicabilità del principio di retroattività della lex mitior alle sanzioni amministrative (nel caso di specie, a quelle previste dal T.U.F.). Trattasi di questione già dibattuta, ma che non gode di definitiva soluzione.

Al riguardo, si ricordano i criteri interpretativi definiti in seno Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale, attraverso alcune importanti pronunce (Grande Stevens contro Italia[4]; Engels contro Paesi Bassi[5]; Scoppola contro Italia[6]; Mihai Toma contro Romania[7]) ha affermato che talune sanzioni, a prescindere dal nomen iuris di diritto interno, vadano considerate latu sensu punitive e per tale motivo, debbano essere a queste applicate le garanzie e i diritti inderogabili tipici della sanzione penale (cfr. art. 7 CEDU[8]), tra i quali si annovera, appunto, la retroattività della disciplina più favorevole al reo.

Sebbene il ricorrente non si soffermi sull’applicabilità di tali criteri nel caso di specie, questi chiede al giudice di legittimità l’applicazione retroattiva della sanzione pecuniaria meno grave, entrata in vigore dopo la commissione del fatto, con ciò equiparando genericamente il sistema sanzionatorio penale a quello amministrativo e derogando al principio del tempus regit actum previsto dall’art. 11 delle preleggi e implicitamente confermato dalla legge n. 689/1981[9].

Autorevole dottrina[10] e giurisprudenza[11] affermano, invece, che la natura della sanzione debba essere valutata caso per caso partendo dall’analisi degli interessi protetti dalla norma sanzionatoria e della funzione e della tipologia della sanzione stessa. Di questo avviso è anche la Consulta, che ha negato la portata generale del principio in discorso con riferimento alle sanzioni amministrative, riconoscendo l’applicabilità dello stesso solo al ricorrere di determinati requisiti[12].

Quanto alle sanzioni previste dal T.U.F., la natura sostanzialmente penale delle stesse è costantemente negata da Banca d’Italia e Consob in linea con gli indirizzi espressi dalla giurisprudenza, che distingue fra le sanzioni in materia di abusi di mercato (dove è riscontrato il carattere “afflittivo”) e le altre fattispecie punitive previste[13]. Per queste ultime, l’esclusione della natura sostanzialmente penale farebbe venir meno ogni possibilità di applicazione retroattiva della lex mitior[14]. E proprio sulla scorta del predetto orientamento anche il giudice de quo rigetta l’istanza del ricorrente.

Per concludere, giova sottolineare che anche sanzioni amministrative solo pecuniarie, come nel caso di specie, potrebbero avere gravi ripercussioni sull’istante, non solo reputazionali, ma concernenti, altresì, l’idoneità ad operare nel settore bancario ed assicurativo[15]. Ecco che, allora, anche tali sanzioni potrebbero acquisire, a prescindere dall’orientamento maggioritario citato, il carattere dell’afflittività, con applicazione della relativa disciplina.

 

[1] G.F. Campobasso, Diritto Commerciale, 2. Diritto delle Società, Utet 2014, pp. 414-415

[2] Cass. Civ. n. 6037/2016

[3] Cfr. -tra le tante- Cass. Civ., sez. I, 13.2.2013 n. 3501; Cass. Civ., sez. I, 26.1.2006, n. 1525

[4] Corte Edu, sentenza del 4 marzo 2014.

[5] Corte Edu, sentenza del 8 giugno 1976.

[6] Corte Edu, sentenza del 17 settembre 2009.

[7] Corte Edu , sentenza del 24 gennaio 2012.

[8] “1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.

2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, era un crimine secondo i principi generale di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.”

[9] Art 1, l. n. 689/1981: “Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati”.

[10] Tra gli altri, Avv. Paolo Cadili, Studio Legale Avv. Prof. Mario Cera – Milano, Estensione del principio della retroattività della lex mitior alle sanzioni amministrative di t.u.b. e t.u.f., in http://www.dirittobancario.it/approfondimenti/vigilanza-bancaria-e-finanziaria/estensione-principio-retroattivita-lex-mitior-sanzioni-amministrative, 19/07/2018.

[11] Oltre alle sentenze sopra citate, si fa riferimento anche alla pronuncia della Corte Edu: Menarini contro Italia 27 settembre 2011.

[12] C. cost., sentenza n. 193/2016.

[13] E’ consolidato l’indirizzo per cui “le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998, artt. 190 e ss. (cd. TUF) non sono equiparabili, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle inflitte ai sensi dell’art. 187-terdel TUF per manipolazione del mercato, sicché esse non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime” (così, da ultima, Cass., 20 aprile 2018, n. 9919).

[14] Cfr. Cass., 2 settembre 2016, n. 17510.

[15] Cfr. nota n. 7.

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Bibliografia 

  • Collegio sindacale di s.p.a.: poteri, doveri e responsabilità, Cristina Cengia, 27.11.2017 in ilsocietario.it
  • Il ruolo del collegio sindacale delle banche in presenza di internal audit, La Redazione, 2.7.2018 in ilsocietario.it
  • I doveri di vigilanza del collegio sindacale di società di diritto comune e di società bancarie, Antonio Franchi, 31.8.2018 in ilsocietario.it
  • La responsabilità dei sindaci per omesso controllo sull’attività gestoria, Cristina Cengia, 14.1.2019 in ilsocietario.it
  • Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, “Norme di comportamento del collegio sindacale di società quotate”, Principi contabili e di valutazione (2018)
  • Hopt, Klaus J. "Comparative corporate governance: The state of the art and international regulation." The American Journal of Comparative Law 59.1 (2011): 1-73.
  • G.F. Campobasso, “Diritto Commerciale, 2. Diritto delle Società”, UTET, Ottava Edizione, 2014

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