A cura dell'Avv. G. Arpea, Docente in area Legale

La lunga crisi dei mercati ha trasformato profondamente il mondo del lavoro rendendolo sempre più mobile e volatile. In questo contesto, il patto di non concorrenza con il lavoratore è uno strumento particolarmente valido per gestire il rischio di concorrenza nei confronti della società datrice di lavoro. Ciò specie se il lavoratore riceve proposte per assunzione da parte di un competitor nel medesimo settore commerciale. Tuttavia, per ottenere un deterrente efficace nei confronti del lavoratore e dei terzi, alle volte il datore di lavoro corre il rischio di eccedere proponendo patti di non concorrenza talmente stringenti da risultare invalidi. Occorre quindi avere consapevolezza degli elementi che caratterizzano questo accordo e i suoi limiti di validità, per garantire una tutela veramente efficace alla società datrice di lavoro. Analizziamoli.

La disciplina generale del patto di non concorrenza

Il patto di non concorrenza è disciplinato dall’art. 2125 c.c. Si tratta di un contratto a titolo oneroso a prestazioni corrispettive, in forza del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di denaro o altra utilità al lavoratore affinché quest’ultimo non svolga, per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, attività in concorrenza con quella dello stesso datore di lavoro[1]L’intento di questa norma è chiaramente quella di salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi migrazione verso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica e amministrativa, metodi ed i processi di lavoro, ecc.) ed esterni (avviamento, clientela, ecc.), trattandosi di beni che assicurano la persistenza sul mercato e il successo rispetto alle imprese concorrenti[2]In breve, oltre al necessario accordo delle parti, l’oggetto del patto di non concorrenza deve prevedere prestazione reciproche, le quali coincidono, da un lato, con l’astensione all’attività concorrenziale del lavoratore e, dall’altro, con la corresponsione del corrispettivo da parte del datore di lavoro[3]Secondo dottrina autorevole e giurisprudenza consolidata[4], questa norma si riferisce in via esclusiva all’ambito dei rapporti di lavoro subordinato e, in particolare, si applica al momento successivo alla cessazione del rapporto per il lavoratore dipendente. Un simile accordo può essere inserito nel contratto individuale di lavoro all’atto dell’assunzione del lavoratore. Tuttavia, lo stesso può essere approvato anche con una stipulazione, nuova e separata, in un periodo successivo, quando il rapporto di lavoro è già avviato. È inoltre discusso se il patto di non concorrenza possa essere stipulato al termine del rapporto di lavoro. A stretto rigore, quest’ultima eventualità rientrerebbe nella diversa fattispecie tipizzata dall’art. 2596 c.c., rubricato “Limiti contrattuali della concorrenza”. Tuttavia, in base a un orientamento di giurisprudenza minoritario e risalente[5], il patto potrebbe essere stipulato anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, pur rimanendo applicabili le regole dettate dall’art. 2125 c.c.

I requisiti del patto di non concorrenza

È proprio l’art. 2125 c.c., unica norma codicistica che disciplina direttamente la fattispecie, a delineare i requisiti ai quali deve attenersi il patto di non concorrenza:

a) la forma; b) la previsione di un corrispettivo; c) la delimitazione delle attività vietate; d) i limiti territoriali e temporali.

Esaminiamoli.

A. – LA FORMA.

Anche in base all’art. 1350 c.c., è previsto che il patto di non concorrenza debba essere stipulato in forma scritta ad substantiam e che, perciò, l’assenza di questo requisito dia luogo alla nullità del patto stesso: tale previsione è coerente con l’orientamento generale proprio del settore giuslavoristico, per cui tutte le pattuizioni idonee a limitare l’agire del lavoratore subordinato, o che comunque costituiscono una deroga peggiorativa alla disciplina “comune” del rapporto di lavoro[6], quali, a titolo esemplificativo, l’apposizione di un patto di prova o di un termine finale, debbano necessariamente essere redatte per iscritto.Specifichiamo, inoltre, che la forma ad substantiam deve riguardare non solo la generica convenzione di non concorrenza inter partes, ma anche tutti gli elementi previsti per la validità del patto.

B. – LA PREVISIONE DI UN CORRISPETTIVO.

La ratio del corrispettivo.

Nel procedere con l’analisi dei singoli requisiti di validità del patto di non concorrenza, osserviamo come lo stesso, in considerazione della sua natura di contratto sinallagmatico a titolo oneroso, ai fini della sua validità (rectius, della validità della sua causa) deve necessariamente prevedere la corresponsione di una somma di denaro in favore del prestatore di lavoroSe consideriamo che lo scopo principale del patto è quello di salvaguardare l’attività lavorativa del datore di lavoro impedendo fuga di notizie e modalità operative di svolgimento della produzione stessa, deve esserci un oggetto che susciti interesse nel lavoratore che viene limitato nella scelta di una nuova occupazione: tale interesse consiste nella percezione del corrispettivo economico pattuito.

La quantificazione del corrispettivo.

In base al principio generale di autonomia contrattuale, alle parti è lasciata libera scelta in merito alla determinazione delle modalità di corresponsione del corrispettivo. Dunque, a un primo sguardo, un’applicazione rigida delle norme di diritto comune dei contratti sembrerebbe implicare quali unici limiti a carico delle parti, nella determinazione del corrispettivo del patto di non concorrenza, le norme di cui agli artt. 1448 c.c. (“Azione generale di rescissione”) e 1467 c.c. (“Risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta”). A ben vedere, però, nella prassi corrente viene applicata una sorta di equità integrativa inspirata all’art. 1374 c.c., secondo cui sarebbe possibile contemperare gli interessi contrapposti delle parti pur rispettando l’effettivo regolamento di interessi voluto dai contraenti. Ecco quindi che, con riguardo alla validità (per congruità) del corrispettivo dovuto in caso di patto di non concorrenza, l’espressa previsione di nullità, contenuta nell’art. 2125 c.c., va riferita alla pattuizione non solo di compensi simbolici, ma anche a compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente sia dall’utilità che il comportamento richiestogli rappresenta per il datore di lavoro, sia dal suo ipotetico valore di mercato. Difatti, giurisprudenza di merito pressoché costante si è espressa sulla nullità del patto di non concorrenza non remunerato o che preveda un riconoscimento a nummo uno[7]. Allo stesso modo la giurisprudenza di legittimità, che si è pronunciata in merito a compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiestogli apporta al datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato[8].

Procediamo ora a un’analisi di maggior dettaglio dell’applicazione di questi criteri, prendendo in esame i parametri enucleati dalla giurisprudenza e dalla prassi. In base a tali indicatori, sembra potersi ritenere valido il patto di non concorrenza che preveda la corresponsione di un corrispettivo:

  1. pari a circa 2,5% della retribuzione annua in pendenza di rapporto e, comunque, l’obbligo del datore di lavoro di riconoscere al lavoratore alla cessazione del rapporto una somma complessiva non inferiore al 40% dell’ultima retribuzione fissa annua lorda[9];
  2. di poco inferiore al 14% della retribuzione annua in pendenza di rapporto e, comunque, l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore alla cessazione del rapporto una somma complessiva non inferiore al 25% dell’ultima retribuzione fissa annua lorda[10];
  3. compreso tra il 15% e il 25% della retribuzione annua lorda[11].

Sembrano dunque doversi escludere riconoscimenti economici di livello inferiore a quello ricompreso nei margini suindicati, tenuto conto del sacrificio richiesto al lavoratore che si obbliga ad astenersi dallo svolgere (eventualmente sia come lavoratore subordinato, sia come autonomo) qualsiasi attività lavorativa in concorrenza con quella del datore di lavoro.

La determinatezza o determinabilità del corrispettivo.

Ai sensi degli artt. 1346 e 2125 c.c., il patto di non concorrenza deve prevedere, a pena di nullità, un corrispettivo predeterminato nel suo preciso ammontare già al momento della stipulazione del patto (giacché è in questo momento che si perfeziona il consenso delle parti) e congruo rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore (in quanto esso costituisce il prezzo di una parziale rinuncia al diritto al lavoro costituzionalmente garantito). Sul punto, rileviamo che la giurisprudenza più recente è costante nel ritenere nullo il patto di non concorrenza post contrattuale per indeterminabilità ex ante del compenso pattuito. Tale ipotesi si ritiene integrata nel caso in cui sia riscontrabile un corrispettivo non chiaramente determinato o da versarsi con modalità tali da disattenderne la natura sinallagmatica del patto[12]In particolare, è stata riscontrata la non rispondenza al requisito di determinabilità imposto dagli artt. 1346 e 2125 c.c. e, quindi, la nullità del patto nel caso in cui sia previsto un compenso commisurato a una percentuale della retribuzione mensile e da erogarsi periodicamente, in mancanza di una espressa previsione di un congruo livello minimo del corrispettivo per astenersi dal porre in essere iniziative in concorrenza con l’ex datore di lavoro[13]. Difatti, con questo meccanismo verrebbe a introdursi una variabile aleatoria legata alla durata del rapporto di lavoro, mentre la congruità del corrispettivo deve essere valutabile in astratto, a prescindere dalla durata del rapporto di lavoro. In altri termini, una simile pratica finirebbe di fatto per attribuire al corrispettivo la funzione di premiare la fedeltà del lavoratore, anziché di compensarlo per il sacrificio derivante dalla stipulazione del patto[14].

Le modalità di pagamento del corrispettivo.

Per quanto concerne le modalità e i termini di pagamento del corrispettivo, la legge non richiede particolari previsioni. Sono quindi ammessi versamenti alla cessazione del rapporto di lavoro (cioè quando il patto diviene efficace) sia in unica soluzione che rateali (con cadenza mensile, trimestrale, annuale, o altra scadenza). È anche possibile che le parti si accordino perché il corrispettivo sia erogato non solo sotto forma di denaro, ma si concretizzi, ad esempio, nella remissione di un debito o godimento di un bene per un certo periodo o con altro compenso in natura.

C. – LA DELIMITAZIONE DELLE ATTIVITÀ VIETATE.

Per quanto concerne, invece, la tipologia delle attività vietate dal patto di non concorrenza, l’art. 2125 c.c. non delinea limiti precisi[15], risultando necessaria un’analisi caso per caso a seconda dell’attività svolta dall’impresa datrice di lavoro e, congiuntamente, dal lavoratore che ha assunto l’obbligo di astenersi dal compiere atti di concorrenza. È subito da scartare l’ipotesi più restrittiva, poiché chiaramente invalida, tale per cui l’ampiezza del vincolo imposto sia tale da inibire del tutto l’espressione della potenzialità lavorative del dipendente, che verrebbe così a trovarsi nell’impedimento di trovare una nuova ricollocazione nel modo del lavoro per tutta la durata del patto: nessun compenso, per quanto cospicuo, può rendere valida la rinuncia a ogni possibilità d’impiego. Difatti, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che i limiti previsti dal patto non possano precludere qualsiasi attività lavorativa al prestatore di lavoro, in considerazione della tutela costituzionalmente garantita del diritto al lavoro (soprattutto alla luce degli artt. 4 e 35 Cost.), sempre avuto riguardo al caso concreto e alle possibilità di conseguire redditi futuri e differenti in capo al lavoratore[16]Resta quindi da approfondire l’esame della questione per stabilire dei limiti più tangibili per questo divieto. In linea generale, possiamo stabilire senza tema di smentita che, relativamente all’oggetto, il patto possa riguardare qualsiasi attività in concorrenza con quella dell’imprenditore. In particolare, ciò che rileva è l’attività svolta dai due diversi datori di lavoro: se l’ambito in cui essa si esplica è il medesimo, le due imprese devono essere ritenute in concorrenza e, di conseguenza, l’ex dipendente che collabori con la seconda viola il patto di non concorrenza sottoscritto con la prima[17]Tuttavia, l’ordinamento non deve semplicemente limitarsi a tutelare l’occupazione del prestatore di lavoro purchessia, ma deve invece tenere conto del livello reddituale percepito e della sua specializzazione; per cui, quanto più sarà elevato, specialistico e difficilmente replicabile il livello della preparazione e della prestazione lavorativa, tanto meno sarà resistente il divieto di svolgerla presso concorrenti. Una conferma in tal senso giunge dalla dottrina[18], la quale ha richiamato l’attenzione sulla necessità di garantire al lavoratore un margine d’attività tale da «appagare le “esigenze di vita sue e del suo nucleo familiare”», aggiungendo al riguardo che «non è sufficiente che sia garantita la possibilità di esercitare qualsivoglia attività lavorativa, che consenta di percepire un profitto sufficiente a soddisfare i primari e materiali bisogni della vita; si richiede invece che venga ricompreso, nelle primarie esigenze di vita da appagare, l’esercizio di una attività lavorativa che consenta al prestatore d’opera di esplicare in Italia la propria qualificazione professionale». Allo stesso modo, la giurisprudenza sancisce la nullità del divieto convenzionale di concorrenza di portata talmente ampia (quanto all’ambito di attività) da comprimere in modo significativo l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore, seppure precisando al riguardo che questo indice d’invalidità debba essere considerato tenuto conto degli effetti del patto sulle potenzialità reddituali del lavoratore[19]Tuttavia, registriamo che allorché la giurisprudenza sia stata chiamata a pronunciarsi in merito alla validità del patto con riguardo al perimetro delle attività vietate, si è espressa con costanza nel senso di circoscrivere le eccezioni alla regola generale, per cui, se l’ambito d’attività è il medesimo, allora si pone un’allerta concorrenziale e, di conseguenza, è stata tendenzialmente riconosciuta la validità del patto[20]Per scrupolo e ancora ai fini dell’effettiva utilità del patto, rileviamo inoltre che può essere impedita al dipendente non solo l’attività in forma subordinata, ma anche quella resa sotto altre possibili forme (ad esempio: consulente, socio, consigliere di amministrazione, agente o anche per interposta persona), prescindendo altresì dalla gratuità o dall’occasionalità dell’attività medesima.

I limiti territoriali.

Se è vero che il sacrificio del lavoratore viene ricompensato in termini economici, è pur vero che i vincoli imposti dal datore di lavoro al termine del rapporto non possono essere illimitati; né in termini di durata temporale, né in termini di area geografica. Pertanto, il patto di non concorrenza è senz’altro nullo se la limitazione territoriale non è espressamente determinata o, se indicata, è troppo estesa generica (ad esempio, limitazioni riguardanti tutto il territorio europeo), proprio perché si impedirebbe totalmente al lavoratore la possibilità di (re)impiegarsi. Tuttavia, in alternativa o in aggiunta alla specificazione territoriale dell’estensione del vincolo, è comunque ammissibile ammessa l’indicazione della denominazione di imprese concorrenti. A conferma di ciò, osserviamo che sul punto è stata rilevata da dottrina autorevole[21] e confermata da giurisprudenza consolidata[22] la pacifica illegittimità di un patto in cui l’estensione del suo ambito territoriale e del suo oggetto sia tale da compromettere in modo rilevante la possibilità del lavoratore di reperire altra occupazione nell’ambito della professionalità acquisita. L’art. 2125 c.c. non specifica se i limiti debbano riguardare il territorio nazionale, ovvero anche quello comunitario ed extracomunitario. A tale riguardo, dall’esame della giurisprudenza emergono due orientamenti contrapposti.

  • In base alla prima tesi, l’estensione del divieto a tutto il territorio nazionale di svolgere attività concorrenziale apparirebbe eccessivamente sacrificante e limitativa dell’ordinaria capacità produttiva del reddito[23], poiché ciò comporterebbe una limitazione drastica e inaccettabile della libertà della capacità lavorativa e professionale, così esercitabile soltanto all’estero[24]. In taluni casi, il divieto territoriale è ritenuto inammissibile anche solo per specifiche aree regionali[25].
  • Al contrario, la seconda tesi ammetterebbe che l’attività lavorativa del prestatore di lavoro che ha stipulato il patto di non concorrenza possa esser limitata all’intero territorio nazionale[26], argomentando al riguardo che nell’odierna dimensione globalizzata dell’economia, un patto di non concorrenza può investire la dimensione europea[27]; ciò sempre purché non si causi la compromissione della possibilità del lavoratore di conseguire un guadagno idoneo alla soddisfazione delle esigenze di vita[28].

Per risolvere il dubbio interpretativo posto dai diversi orientamenti, resta ineludibile una considerazione del patto complessivamente inteso e caso per caso, a prescindere dall’ampiezza dei singoli limiti che ne connotano il contenuto[29], in un’ottica di maggior protezione e tutela in favore del dipendente, che resta pur sempre la “parte debole” del rapporto contrattuale. È infatti alla luce del predetto approccio “complessivo” al patto oggetto d’analisi che si giustificano gli orientamenti contrastanti e può essere condotto l’esame caso per caso.

I limiti temporali.

Ai sensi dell’art. 2125 c.c., la durata del patto non può eccedere cinque anni se riguarda i dirigenti e tre anni per le altre categorie. La ratio di questa previsione affonda nella maggior delicatezza delle mansioni affidate ai soggetti che ricoprono la carica dirigenziale, i quali, secondo orientamenti giurisprudenziali ormai ampiamente consolidati, svolgono la funzione di alter ego dell’imprenditore[30], trattando pertanto informazioni più delicate e soprattutto intrattenendo rapporti diretti con la clientela, attività suscettibile di creare danni di maggiore entità dopo la cessazione del rapporto di lavoro. Nel caso in cui venisse pattuita una durata superiore a quella prevista dall’art. 2125 c.c., essa verrà automaticamente ridimensionata sui limiti massimi previsti dalla legge, in virtù del disposto di cui all’art. 1419, comma 2, c.c., secondo cui «La nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative». Allo stesso modo, è nulla per frode alla legge sia la pattuizione che stabilisca la proroga del termine oltre i limiti di cui all’art. 2125 c.c., sia quella che prolunghi la durata all’interno limiti di legge, ma senza un adeguamento del corrispettivo in favore del lavoratore[31]Segnaliamo peraltro che, relativamente ai predetti limiti temporali, il silenzio delle parti in ordine alla durata del patto non ne determina la nullità, ma comporta la durata di esso nella misura massima stabilita dall’art. 2125 c.c. In entrambi i casi, spetterà comunque al Giudice valutare la congruità della durata in relazione alle limitazioni dell’oggetto e al compenso pattuito.

La tutela del datore di lavoro in caso di violazione.

Nel caso in cui l’ex dipendente eserciti attività lavorative in violazione di quanto stabilito nel patto di non concorrenza, il datore di lavoro potrà agire in via alternativa per sciogliere il patto di non concorrenza per inadempimento, utilizzando il rimedio generale di cui all’art. 1453 c.c., ottenendo così la restituzione del corrispettivo già versato all’ex lavoratore, nonché il risarcimento dei danni subiti a causa dell’attività concorrenziale posta in essere dallo stesso; l’imprenditore opterà per questa scelta, verosimilmente, nelle situazioni in cui non abbia più un concreto interesse ad ottenere l’adempimento della prestazione oggetto del patto di non concorrenza. Qualora invece l’imprenditore, anche a seguito dell’inerzia del lavoratore, conservasse un interesse a che la pattuizione venga osservata, qualora ne ricorrano i presupposti (fumus boni iuris e periculum in mora) potrà fare ricorso alla procedura d’urgenza stabilita dall’art. 700. c.p.c., indirizzata a ottenere un’inibitoria espressa dal Giudice che vieti al lavoratore di continuare a svolgere l’attività concorrenziale rispetto all’ex datore di lavoro[32]. Quest’ultima iniziativa non pregiudica, comunque, il diritto dell’ex datore di lavoro a ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalla violazione del patto di non concorrenza, i quali possono essere quantificati anche con un’apposita clausola penale. Le controversie inerenti al patto di non concorrenza rientrano, secondo le principali pronunce giurisprudenziali, nella competenza del Giudice del Lavoro, sia se vertano in ordine alla validità del patto, sia se attengano al risarcimento del danno per la sua violazione in epoca successiva alla cessazione del rapporto stesso[33].


[1] R. Barchi, Violazione del patto di non concorrenza ed inibitoria, in Dir. prat. lav., 2004, p. 18 ss.; Id., Il patto di non concorrenza: gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, in Dir. prat. lav., 2001, p. 14 ss.; M. Bartesaghi, Sui requisiti di legittimità del patto di non concorrenza, in Riv. it. dir. lav., 1995, p. 582; M.N. Bettini, Attività inventiva e rapporto di lavoro, Milano, 1933; F. Bianchi D’Urso, Concorrenza. Patto di non concorrenza, in Enc. giur., VII; Roma, 1988; A. Carestia, L’onerosità del patto di non concorrenza nel rapporto di agenzia, in N.l.c.c., 2001, pp. 3 e 4; C. Cester, sub art. 2125, in Comm. Cendon, V, Torino, 1991; P. Fabris, Il patto di non concorrenza nel diritto del lavoro, Milano, 1976; M. Grandi e G. Pera, Commentario breve alle leggi sul lavoro, sub art. 2125, Padova, 1996; A.V. Izar, Considerazioni sul patto di non concorrenza, in Dir. prat. lav., 1997, p. 11; S. Magrini, Sul corrispettivo del patto di non concorrenza fra lavoratore e datore di lavoro, in Riv. dir. lav., p. 196; V. Meleca, Il patto di non concorrenza, in Dir. prat. lav., 1989; F. Miani Canevari, Patto di non concorrenza e tutela del lavoratore, in Dir. lav., 1995; E. Minale Costa, Lineamenti del patto di non concorrenza, in Annali Genova, 1977; L. Montuschi, Patto di non concorrenza concluso dopo l’estinzione del rapporto di lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965; G. Pagliero, Il patto di non concorrenza, in Dir. prat. lav., 1991; G. Pellacani, Elementi distintivi tra invenzioni di servizio e invenzioni d’azienda, in Dir. prat. lav., 2001, p. 17; V. Pomares, La disciplina del patto di non concorrenza, in Giur. lav., 2003, p. 49; L. Rinaldi e G. De Fazio, Invenzioni dei dipendenti e ricercatori universitari: nuovo regime, in Giur. lav., 2005, p. 12; L. Riva Sanseverino, Lavoro, in Comm. Scialoja-Branca, sub art. 2125, Bologna-Roma, 1977; M. Rotondi, Patto di non concorrenza: limiti e sanzioni, in Dir. prat. lav., 1993; M. Tatarelli, Il patto di non concorrenza: contenuto e sanzioni, in Mass. giur. lav., 2002, p. 147 ss.; C. Timellini, Ancora sul tema della concorrenza con particolare riferimento al rapporto di lavoro, in Mass. giur. lav., 2002, p. 353 ss.; P. Tradati, Il nuovo patto di non concorrenza nel contratto di agenzia, in Giur. lav., 2001, p. 5; D. Turello, Patto di concorrenza e misure di coercizione indirette, in Lav. giur., 2003, p. 12

[2] In tal senso, cfr. Cass. civ., sez. lav., 19 novembre 2014, n. 24662, in Guida al diritto, 2015, p. 38.

[3] Segnaliamo peraltro come l’obbligazione posta in carico all’ex lavoratore, per il suo carattere chiaramente omissivo, sia suscettibile di adempimento immediato, e pertanto, ai sensi dell’art. 1222 c.c., non sarà sottoposta alle normali regole della mora del debitore. Osserviamo inoltre, per quanto attiene alla natura del corrispettivo secondo un profilo giuslavoristico, che, come ha evidenziato Trib. Milano, 12 novembre 2008, in Riv. critica dir. lav., 2009, p. 184, «Il corrispettivo del patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c. da erogarsi nel corso del rapporto di lavoro costituisce un elemento distinto dalla retribuzione, e non un elemento interno a essa […]». La questione è trattata incidentalmente nei medesimi termini in P. Tarigo, Il giudizio d’inerenza dei costi d’impresa in alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione, in Riv. Dir. Fin. e Sc. Fin., 2016, p. 423 ss.

[4] In dottrina, P. Fabris, op. cit., p. 57; L. Riva Sanseverino, op. cit., p. 745; in giurisprudenza, cfr. Trib. Milano, 16 marzo 2001, in D. & L., 2001, p. 751; Trib. Milano, 25 luglio 2000, in Or. giur. lav., 2001, p. 117; Cass. civ., sez. lav., 2 marzo 1988, n. 2221, in Giur. it., p. 714.

[5] Cass. sez., un., 10 aprile 1965, n. 630, in Foro it., 1965, p. 1020.

[6] Che il contratto di lavoro a tempo pieno e a tempo indeterminato costituisca la “forma comune di rapporto di lavoro” è stato dapprima enunciato all’art. 1 della L. 28 giugno 2012, n. 92, cosiddetta “Legge Fornero”, e poi ribadito nel D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81.

[7] Cfr. Trib. Teramo, sez. lav., 30 marzo 2011, n. 209, in Giur. locale – Abruzzo, 2011; Trib. Milano, 25 marzo 2011, in Riv. critica dir. lav., 2011, p. 625.

[8] Cass. civ., sez. lav., 14 maggio 1998, n. 4891, in Giust. civ. Mass., 1998, p. 1041; Cass. civ., sez. lav., 26 novembre 1994, n. 10062, Riv. it. dir. lav., 1995, p. 582.

[9] Trib. Milano, 25 marzo 2011, cit.

[10] Trib. Milano, 4 marzo 2009, in Riv. critica dir. lav., 2009, p. 183; Trib. Milano, 13 agosto 2007, in Riv. critica dir. lav., 2007, p. 1124.

[11] ex multis cfr. C. Vivenzi, Guida al “Patto di Non Concorrenza” nel Lavoro Subordinato, reperibile al seguente riferimento: http://www.mysolutionpost.it/media/6434408/Il%20patto%20di%20non%20concorrenza.pdf.

[12] Trib. Milano, sez. lav., 6 maggio 2015, in Dejure.it, 2015; Trib. Ascoli Piceno, 22 ottobre 2010, n. 209, in Dir. e lav. Marche, 2011, p. 195.

[13] Trib. Perugia, sez. lav., 10 ottobre 2018, n. 369, in Dejure.it, 2018.

[14] Trib. Milano, 4 marzo 2009, in Riv. critica dir. lav., 2009, p. 183; conf. Trib. Milano, 6 maggio 2015, cit.; Trib. Ascoli Piceno, 22 ottobre 2010, n. 209, cit.; Trib. Milano, 28 settembre 2010, in Riv. critica dir. lav., 2010, p. 1080; Trib. Milano, 13 agosto 2007, in Riv. critica dir. lav., 2007, p. 1124; Trib. Milano, 11 settembre 2004, in Riv. critica dir. lav., 2004, p. 941; contra la tesi, più risalente e ormai superata, espressa da Trib. Milano, 27 gennaio 2007, in Riv. critica dir. lav., 2007, p. 822, secondo cui il patto con un compenso crescente proporzionalmente alla durata del rapporto di lavoro non potrebbe considerarsi aleatorio, in quanto meglio risponderebbe all’esigenza di un equo contemperamento degli interessi delle parti, considerato che la maggiore permanenza in un determinato settore merceologico comporta la maggiore specializzazione del lavoratore, rendendo più difficile la collocazione nel mercato del lavoro in un settore diverso e che, viceversa, tali difficoltà non incontra chi abbia svolto un breve periodo di lavoro presso un datore di lavoro che, dopo aver consentito comunque l’apprendimento di nozioni tecniche, non possa fruire del lavoro di tale dipendente perché in breve tempo dimissionario.

[15] G. Conte, in Riv. It. Dir. Lav., 1999, p. 72, secondo cui: «Precisato pertanto che la ratio della norma in esame è quella di tutelare il prestatore di lavoro, evitando che il patto possa precludergli totalmente di mettere a frutto il proprio bagaglio professionale, si può affermare che la giurisprudenza appare orientata a riconoscere che le mansioni vietate possano essere anche ulteriori rispetto a quelle svolte in costanza di rapporto, purché, in concreto, permanga un sufficiente margine per il lavoratore per esprimere la propria capacità produttiva di reddito, anche in considerazione della professionalità posseduta».

[16] Nella giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. civ., sez. lav., 10 settembre 2003, n. 13282, in Giust. civ. Mass., 2003 p. 9; Cassazione civile, sez. lav., 3 dicembre 2001, n. 15253, in Giust. civ. Mass., 2001, p. 2072; Cass. civ., sez. lav., 2 maggio 2000, n. 5477, in Giust. civ. Mass., 2000, p. 914; Cass. civ., sez. lav., 14 maggio 1998, n. 4891, in Giust. civ. Mass., 1998, p. 1041; Cass. civ., 26 novembre 1994, n. 10062, cit., secondo cui il patto di non concorrenza è nullo «allorché la sua ampiezza è tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenziale reddituale»; nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Teramo, 30 marzo 2011, n. 209, cit.; Trib. Milano, 6 maggio 2015, cit.

[17] App. Perugia, sez. lav., 15 ottobre 2018, n. 142, in Dejure.it, 2018.

[18] Sul particolare punto, cfr. M. Bartesaghi, Sui requisiti di legittimità del patto di non concorrenza, in Riv. It. Dir. Lav., 1995, p. 582.

[19] Trib. Teramo, 30 marzo 2011, n. 209, cit., che ha ritenuto nullo un patto di non concorrenza che precluda al lavoratore lo svolgimento di qualsiasi attività nel settore specifico, nell’intero ambito nazionale, a fronte di un corrispettivo ragguagliato ad una cifra irrisoria, trattandosi di compenso ictu oculi manifestamente iniquo e sproporzionato in rapporto all’esteso sacrificio richiesto al prestatore ed alla considerevole riduzione delle sue possibilità di guadagno.

[20] Nella giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. civ., sez. lav., 10 settembre 2003, n. 13282, in Giust. civ. Mass., 2003, p. 9, la quale ha rilevato la rispondenza ai requisiti previsti dall’art. 2125 c.c. di un patto con il quale un dipendente, assunto con qualifica di addetto marketing ufficio estero presso una società leader a livello internazionale nel settore della commercializzazione di articoli per il fitness, si era impegnato ad astenersi in territorio italiano ed europeo, per i tre anni successivi alla cessazione del rapporto con la società datrice di lavoro, verso un corrispettivo mensile per tredici mensilità, dal prestare la propria opera, sia in qualità di lavoratore autonomo, che di lavoratore subordinato, in favore di aziende operanti nel medesimo settore, considerando che detta pattuizione non impediva al dipendente di esplicare le proprie attitudini professionali in qualsiasi settore economico ad eccezione di quello del fitness; in senso conforme, cfr. Cass. civ., sez. lav., 2 maggio 2000, n. 5477, in Notiz. giur. lav., 2000, p. 492; Cass. civ., sez. lav., 14 maggio 1998, n. 4891, in Giust. civ. Mass., 1998, p. 1041; nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Milano, 25 marzo 2011, in Riv. critica dir. lav., 2011, p. 625, che ha stato ritenuto valido un patto di non concorrenza della durata di un anno esteso a tutto il territorio italiano e circoscritto al settore dello sviluppo, produzione, distribuzione e commercializzazione di prodotti biomedicali, e, in particolare, di prodotti di ortopedia, riabilitazione orale, traumatologia e chirurgia vertebrale, sul rilievo che il lavoratore avrebbe potuto utilmente sfruttare la professionalità acquisita come specialista di prodotto di una linea per la chirurgia spinale in altri settori del campo medico e con riferimento a prodotti appartenenti a settori diversi da quelli oggetto del patto.

[21] F. Bocchicchio, Lo storno di collaboratori tra patto di non concorrenza e concorrenza sleale: profili della concorrenza e teoria dell’impresa, in Giur. comm., 1999, p. 642.

[22] Ex multis in sede di legittimità Cass. civ., 4 febbraio 1987, n. 1098, in Notiz. giur. lav., 1987, p. 374 ss.; in sede di merito cfr. Pret. Prato, 18 luglio 1991, in Toscana giur. lav., 1992, p. 23 ss. ivi, 1990, p. 454.

[23] Cass. civ., sez. lav., 4 febbraio 1987, n. 1098, in Not. giur. lav., 1987, p. 384; Trib. Milano, 4 marzo 2009, in Riv. critica dir. lav., 2009, p. 183, che, ai fini della decisione, ha però preso in considerazione l’insieme coordinato di tutti i parametri, compresa anche l’attività svolta, l’età, l’esperienza e la specializzazione del dipendente; conf. Trib. Milano, sez. lav., 6 maggio 2015, in Dejure.it, 2015.

[24] Cass. civ., 4 febbraio 1987, n. 1098, in Notiz. giur. lav., 1987, p. 374 ss.

[25] Trib. Milano, 11 settembre 2004, in Riv. critica dir. lav., 2004, p. 941, nel cui caso è stato ritenuto nullo un patto di non concorrenza con limitazione al territorio del centro e nord d’Italia, tenuto conto anche del fatto che nel predetto territorio avevano sede la maggior parte delle imprese del settore ove aveva sempre operato il lavoratore.

[26] Trib. Milano, 16 novembre 1994, in Orient. giur. lav., 1994, p. 839, secondo cui «È giustificata e non viola il limite di estensione territoriale di cui all’art. 2125 c.c., l’estensione a tutta l’Italia del patto di non concorrenza avente per oggetto il divieto di produrre e commerciare un articolo tanto specifico e particolare da non impedire o comunque limitare in maniera eccessiva l’attività economica e lavorativa del soggetto obbligato.».

[27] Trib. Milano, 3 maggio 2005, in Dejure.it, 2005.

[28] Trib. Milano, 25 marzo 2011, cit.

[29] ex multis Trib. Milano, 11 maggio 2001, in Lav. nella giur., 2002, p. 288, secondo cui «Il patto di non concorrenza previsto dall’art. 2125 c.c. è valido purché i vincoli di oggetto e di luogo lascino in concreto al lavoratore la possibilità di svolgere un’attività lavorativa coerente con la professionalità acquisita e sia stato previsto il pagamento di un corrispettivo congruo rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore medesimo (nella fattispecie, in considerazione della professionalità del lavoratore capace di dispiegarsi in aziende del terziario operanti in settori diversi da quelli del lavoro temporaneo, è stato ritenuto valido il patto di non concorrenza esteso all’intero territorio italiano a fronte del pagamento di un compenso mensile equivalente alla media dello stipendio mensile netto percepito dal lavoratore nei due anni precedenti la risoluzione del rapporto di lavoro)».

[30] ex multis, Cass. civ., sez. lav., 4 agosto 2017, n. 19579, in Giust. civ. Mass., 2017.

[31] Cass. civ., sez. lav., 10 novembre 2015, n. 22933, in Giust. civ. Mass., 2015.

[32] Trib. Milano, 25 marzo 2011, in Riv. critica dir. lav., 2011, p. 625; Trib. Ascoli Piceno, 22 ottobre 2010, n. 209, cit.

[33] Nella giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. civ., 12 giugno 1981, n. 3837, in Giust. civ., 1981, p. 2567; Cass. civ., 17 novembre 1980, n. 6139, in Foro it., 1981, p. 1340; nella giurisprudenza di merito, cfr. Pret. Lecco, 10 giugno 1992, in Giust. civ., 1993, p. 1937, secondo cui: «Rientra nella competenza funzionale del Giudice del lavoro la controversia in materia di azione di ripetizione delle somme indebitamente percepite dal lavoratore, nel corso del rapporto di lavoro, in esecuzione del patto di non concorrenza dichiarato nullo con sentenza passata in giudicato».

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Ultima modifica il 14/01/2021

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