Profili di responsabilità delle banche: concessione abusiva del credito e rottura brutale
A cura di L. Muscati e V. Palucci (partecipanti in area Legale)
L’attività bancaria, sia con riferimento alle contrattazioni volte all’accesso ed all’esercizio del credito e raccolta del risparmio che ad ogni tipologia di atto o di operazione posta in essere, richiede un grado di diligenza qualificato (quella del c.d. bonus argentarius di cui all’art. 1176 c.c.), stante l’alto grado di professionalità dei soggetti agenti.
Per questo motivo, un attento sistema di autorizzazioni, di vigilanza e di trasparenza sovrintende al suo espletamento, così come severe sanzioni puniscono le condotte irregolari sia della Banca che delle persone fisiche addette alle sue funzioni, ovviamente con particolare attenzione agli amministratori, che degli istituti bancari governano i processi decisionali ed operativi.
L’esigenza di un alto grado di prudenza e di attenzione trova giustificazione nell’interesse pubblicistico sotteso al mercato finanziario e creditizio; se nel 1952 le Sezioni Unite di Cassazione (sent. n. 3042) definivano la Banca Centrale un Ente di diritto pubblico riconoscendole, ad essa sola, una funzione pubblica nel settore valutario ed una funzione pubblicistica di direzione e vigilanza nel settore creditizio e regolamentazione del mercato monetario e della circolazione monetaria, nel 1981 le stesse SS.UU. arrivavano a definire di pubblico servizio addirittura ogni attività bancaria volta alla raccolta del risparmio ed all'esercizio del credito, con ciò qualificando come incaricati di servizio pubblico anche tutti i soggetti privati legittimati a compierla.
La successiva perdita della qualità di Ente Pubblico da parte della Banca d’Italia e la progressiva trasformazione dell’attività bancaria in attività privata concorrenziale, giunta fino alla scomparsa di ogni distinzione tra aziende ed istituti di credito, ha sì determinato una generale omogeneizzazione della disciplina dei soggetti Banche ma ha lasciato inalterato sia il pubblico interesse insito nell’accesso al credito, come statuito anche dalla Costituzione all’art. 47, sia il sistema di controllo per la repressione di ogni comportamento che con il pubblico interesse contrasti.
Oltre alla Costituzione, il testo Unico Bancario di cui al D.Lgs. 385/93 e poi le norme dei codici civile e penale costituiscono i pilastri normativi di tutto questo sistema di vigilanza e controllo di cui la Banca d’Italia continua a costituire il fulcro, con competenza ad irrogare sanzioni amministrative laddove, con dolo o colpa, vengano ad essere azioni od omissioni coscienti e volontarie.
In un quadro così delineato, vengono dunque continuamente sorvegliati tutti quei comportamenti attinenti sia alla fase di negoziazione finalizzata all’erogazione del credito che alla fase interna al rapporto creditizio istaurato, facendo emergere ogni situazione di inadempimento che determini una responsabilità precontrattuale (in riferimento a dovere di informazione, consegna dei documenti, chiarezza e comprensibilità della negoziazione) e contrattuale (per inadempimento totale ovvero per adempimento inesatto o ritardato).
Di particolare importanza, poi, sono tutti quei comportamenti da fatto illecito che determinano la lesione di un interesse pubblicistico del mercato creditizio configurando responsabilità di tipo extracontrattuale ex art. 2043 c.c. da culpa in omittendo. Le fattispecie che stanno trovando, recentemente, sempre maggiore attenzione nel diritto bancario, venendo riconosciute in ambito giurisprudenziale dopo essere state per molto tempo relegate solo nelle discussioni dottrinali, sono la “concessione abusiva” e la “rottura brutale” del credito. La prima attiene alla violazione del dovere di diligenza e di accortezza nello svolgimento di tutte le attività preliminari e propedeutiche alla concessione di finanziamento, giacché l’interesse alla stabilità del sistema creditizio esige un’accurata analisi della solidità del debitore, e si configura allorché una Banca conceda, rinnovi o proroghi un finanziamento ad un’impresa in stato di grave crisi economica, pur avendo conoscenza di questa situazione. Ritardando l’emersione dello stato di insolvenza e, probabilmente, anche l’apertura di una procedura fallimentare a carico dell’azienda, la Banca potrebbe collaborare a mantenere in vita un’impresa dissestata che non dovrebbe più poter operare, così condizionando e pregiudicando i creditori dell’azienda ed altri operatori di mercato.
Ad ogni buon conto, ciò che rileva ai fini della condotta abusiva è la sicura insolvenza della parte debole del rapporto, senza che questa debba necessariamente tramutarsi in uno stato di fallimento.
Partendo da tale assunto, la Corte di Cassazione a sezioni unite, nella sentenza n. 7030/2006 nel tratteggiare gli estremi per valutare l’illiceità di una concessione creditizia, ha stabilito che “la abusiva concessione del credito per perfezionarsi e produrre pregiudizio, non deve essere collegata di necessità all'evento fallimento, come la suggestiva prospettazione del ricorrente sembra supporre. Essa infatti rimane illecita e dunque possibile fonte di pregiudizio aquiliano, ancorché non venga seguita dal fallimento ed addirittura prima ancora che questo si verifichi. Una concessione di credito estranea alle regole di corretta amministrazione del medesimo, mantenendo artificialmente in vita una impresa quando essa invece dovrebbe uscire dal mercato, le consente di continuare una concorrenza che altrimenti non eserciterebbe. [...] Si deve dunque dedurre che l'effetto dannoso della attività illecita di cui si tratta non è di necessità e dunque esclusivamente la erronea percezione della solvibilità della impresa finanziata. Lo specifico effetto piuttosto è potenzialmente plurimo, e dipende dalla relazione giuridica con il terzo danneggiato”.
Svariate sono poi le ipotesi enucleate dalla Giurisprudenza di danno causato da un siffatto comportamento sia nei confronti dell’utente stesso che dei terzi creditori, poiché da un lato aggrava la situazione debitoria dell’insolvente nei confronti dell’Istituto finanziatore e, al contempo, mascherando la sua reale situazione di insolvenza, pregiudica al terzo creditore la regressione del proprio diritto alla soddisfazione a causa del privilegio ottenuto dalla Banca, appunto, con la nuova concessione di credito.
La rottura brutale del credito, invece, non si estrinseca in un comportamento collaborativo ad una situazione di dissesto già esistente e conosciuta e perciò produttivo di danni a terzi, ma in una condotta dell’Istituto di credito che, oltre a produrre danni direttamente alla propria controparte contrattuale, potrebbe diventare finanche la causa stessa del suo dissesto, in quanto composta dall’arbitraria decisione della Banca di negare al cliente la concessione o la prosecuzione del credito concesso, e ad imporre alla controparte il rientro repentino dalla sua posizione debitoria.
Il recesso da un contratto di apertura di credito, normato dall’art. 1845 c.c., è una fattispecie assolutamente valida se esercitata con idoneo preavviso, in caso di rapporto a tempo indeterminato, oppure in presenza di una giusta causa (con effetto immediato) sia in caso di rapporto a tempo determinato (recesso anticipato prima della scadenza) che indeterminato; ma nel caso in cui il credito sia stato concesso con una certa stabilità, e durante lo svolgimento del rapporto non sorgano elementi idonei a mutare e/o rinegoziare le condizioni pattiziamente stabilite, l’Istituto finanziatore potrà essere ritenuto responsabile della “rottura” volontaria e immotivata del rapporto. Non a caso soventemente Giurisprudenza e Dottrina, nel delineare i tratti connotanti di tale fattispecie, richiamano la nozione di abuso del diritto (opinione peraltro condivisa anche da altri ordinamenti).
Troppo spesso, però, la prassi bancaria ha operato comportamenti illegittimi ed arbitrari della Banca che espongono il correntista ad evidenti pregiudizi, costringendolo ad una improvvisa e repentina perdita di liquidità e, conseguentemente, all’insolvenza. Prassi suffragata dal significativo aumento del contenzioso afferente le richieste risarcitorie avanzate nei confronti degli Istituti finanziari e bancari per arbitraria interruzione del rapporto creditizio.
Per tale motivo, è sui concetti di “giusta causa” di cui al primo comma dell’art. 1845 c.c. e di “idoneo preavviso” che l’ultimo comma del medesimo articolo rimanda al contratto, agli usi o, in mancanza, al termine di quindici giorni, che si concentrano quasi totalmente le attenzioni della giurisprudenza, particolarmente dell’ABF. Indipendentemente dal pur legittimo interesse a non continuare il rapporto di finanziamento ove vi siano indici sintomatici della incapacità del debitore di fare fronte alla obbligazione restitutoria e, quindi, dal merito della valutazione sulla reale sussistenza della giusta causa (oggetto di svariati contenzioni finanche quando questa venga tipizzata in contratto) non è inusuale che la Banca violi le regole di trasparenza, correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), anche nelle modalità di comunicazione del recesso immediato, notiziando talvolta il correntista della interruzione di fido e della linea di credito senza fornire motivazioni, con motivazioni soltanto generiche ovvero utilizzando formule evanescenti di scarsa comprensione.
Elemento, questo, ancor più rilevante se si tiene in considerazione che la posizione del cliente e quella della Banca non possono certo essere considerate equivalenti e/o simmetriche, considerata la mole informativa a disposizione dell’Istituto a discapito dell’utente, nonché la possibilità riconosciuta all’Istituto stesso di predisporre unilateralmente le clausole contrattuali (incluse quelle di recesso) da utilizzare nell’erogazione delle somme.
Quanto al preavviso, limitatamente all’apertura di credito a tempo indeterminato, vengono in rilievo due aspetti che possono generalmente determinare condotte censurabili della Banca; uno di natura formale, ovvero la necessità di forma scritta e la chiara indicazione nella comunicazione della volontà di recedere, non rinvenibile implicitamente in una semplice, ad esempio, richiesta di contatto (ABF Roma, Decisione n. 5680/2013), ed un altro più prettamente contenutistico, ovvero la sua durata.
Benché le norme consentano una libera determinazione, perché il preavviso possa considerarsi idoneo – e quindi legittimo – è però necessario che la Banca consenta al cliente «di continuare a operare sul conto corrente (nonostante l’avvenuta comunicazione del preavviso) per un lasso temporale sufficiente a consentirgli di ricercare un’altra controparte contrattuale e a evitare eccessive difficoltà nello svolgimento dell’attività imprenditoriale dello stesso» (così ABF Napoli, 29 maggio 2012, n. 17389)ovvero interrompa il rapporto«con una tempistica idonea a consentire al cliente stesso il reperimento della provvista per il saldo del conto» (Trib. Verona, 24 dicembre 2012, in Il caso, n. 8617). Tempistiche troppo ristrette oppure l’esercizio del recesso effettuato con comunicazione al cliente della chiusura del conto corrente che pervenga addirittura in data successiva a quella in cui gli effetti dello stesso si sono prodotti, sono certamente comportamenti illegittimi e portatori di un danno che potrà essere risarcito anche in via equitativa (ABF Milano, 28 ottobre 2011, n. 2320; ABF Roma, 10 ottobre 2013, n. 5109).
Categoria particolare della fattispecie di rottura brutale del credito è poi quella attinente ai rapporti non già in essere e, dunque, alla violazione degli obblighi di buone fede e correttezza contrattuale ben potendo, proprio come la concessione abusiva, in generare una responsabilità precontrattuale per inosservanza dell’art. 1337 c.c. allorché la Banca interrompa senza giustificato motivo le trattative per l’apertura di conto corrente.
Ma perché tale situazione possa configurarsi, come costantemente la Giurisprudenza ritiene in tema di responsabilità precontrattuale, anche in questo caso è necessario che si sia già prodotto un danno risarcibile e, perciò, soltanto se le trattative siano giunte ad una fase tale da aver ingenerato il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto, così esponendo una delle parti ad impegni con terzi non più onorabili. Il Tribunale di Piacenza, con la sentenza n. 846 del 17.11.2015, ha trattato proprio questa fattispecie riconoscendo la responsabilità dell’Istituto di Credito che aveva richiesto alla controparte del futuro contratto una serie di iniziative univocamente finalizzate all'erogazione del mutuo, nello specifico avendo sollecitato ed ottenuto il versamento di un rilevante importo da vincolare a garanzia del mutuo, per poi decidere, improvvisamente ed ingiustificatamente di rifiutare il finanziamento; il Giudice, però, pur emettendo un giudizio di colpevolezza, ha negato il risarcimento al cliente ritenendo che «In presenza di accertata responsabilità precontrattuale della banca grava sull'attore l'onere di provare il danno patito, inteso come interesse negativo, senza alcun ricorso a generici criteri equitativi».
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Bibliografia
Rita Claudia Calderini, Banche: la concessione abusiva del credito a cliente insolvente, articolo del 14.02.2017 in www.altalex.com.
Oreste De Nicola, (1)Sul diritto della banca scontante alla restituzione della somma anticipata, nota a Cassazione civile , 23 settembre 2002, n.13823, sez. I, in Banca borsa tit. cred., fasc.1, 2005, pag. 1.
Livia Franco, Recesso abusivo dal contratto di apertura di credito A proposito di ABF Roma, n. 5680/2013, http://www.dirittobancario.it.
Valentino Lenoci, La responsabilità della banca per interruzione "brutale" del credito, contributo pubblicato in data 13 luglio 2013 su “I battelli del Reno” rivista di diritto ed economia dell’impresa.
Giampaolo Morini, Responsabilità della banca: le fonti normative,Articolo del 22.09.2015, www.altalex.com.
Giuseppe Terranova, La cessione delle azioni nelle procedure concorsuali, in Banca Borsa Titoli di Credito, fasc.5, 2014, pag. 523.
Maurizio Tidona, La responsabilità della banca per la "rottura brutale" nella concessione di fido, Magistra Banca e Finanza, rivista di Diritto Bancario e Finanziario, Ottobre 1999.
Tribunale di Piacenza, sentenza n. 846 del 17.11.2015