Quali competenze e profili in epoca post Covid: il punto di vista degli Head Hunter
A cura di S. Grandini e C. Affronte, Redazione HR-Link
La pandemia che abbiamo vissuto viene descritta come un acceleratore di fenomeni già in atto nella società e nell’economia. Lo smart working è l’esempio principale: ci siamo resi conto che molte attività si possono fare in remoto. Lo sapevano, il lavoro agile è in crescita da anni, ma l’emergenza ci ha fatto fare grandi balzi in avanti. Lo stesso si può dire per quanto riguarda le competenze: già prima dell’emergenza era chiaro lo scenario. Il World Economic Forum – nell'ultimo rapporto The Future of Jobs – stimava che entro il 2022 oltre il 54% dei lavoratori avrebbe avuto bisogno di rivedere le proprie competenze o di acquisirne di nuove. Poi è arrivato il coronavirus, che ha reso ancora più urgente la necessità di lavorare sulle competenze: le imprese devono ripensare i propri percorsi di reskilling e upskilling, per preparare le risorse al lavoro che verrà e non perdere competitività; i singoli lavoratori devono farsi carico dello sviluppo delle proprie competenze, se non vogliono essere lasciati ai margini di un mercato del lavoro che cambia con rapidità. E non ci si riferisce solo alle competenze legate ai cambiamenti portati dall’innovazione tecnologica. Nel nuovo scenario, sono importanti anche soft skills quali la flessibilità, la creatività, il pensiero critico, la negoziazione, la capacità di comunicare, il problem solving, l'intelligenza emotiva, la leadership.
Cosa è successo con il Covid? Come si sono accentuate le tendenze? HR Link – portale verticale dedicato ai professionisti delle human resources – ha rivolto queste domande ad alcuni top head hunter del mercato italiano (cfr. Top head hunter Italia, la classifica 2020, www.hr-link.it), per comprendere quali saranno le principali sfide che si troveranno davanti gli hr manager, le organizzazioni e l’intera società italiana.
Come impatta la digital disruption
La diffusione della banda ultra-larga, l'adozione massiva dei big data e le tecnologie cloud sono i driver di cambiamento che stanno influenzando il mondo del lavoro. Un fenomeno che la pandemia ha solo accelerato: già due anni fa – riporta l’Osservatorio Big Data Analytics & Business Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano – il 46% delle grandi imprese italiane aveva inserito in organico la figura del Data Scientist, il 42% quella di Data Engineer, il 56% il profilo di Data Analyst.
Il numero degli annunci web per le professioni ICT, del resto, è più che raddoppiato negli ultimi 4 anni, con una impennata in seguito al lockdown: secondo i dati del LinkedIn's Economic Graph, la professione più ricercata nel nostro Paese nel periodo tra aprile e giugno 2020 è stata quella del Software engineer. Un trend che non riguarda solo le leve operative, ma anche – a maggior ragione – il management. «Molto ‘di moda’ in questi anni è diventato il profilo del chief information officer, cui spesso si dà una connotazione digital – ha raccontato a HR Link Alessandro Rovis, industrial practice leader per Spencer Stuart – Si tratta di una funzione che già in passato era richiesta, adesso lo è di più. Insomma, ciò che in altri momenti veniva considerato un costo, oggi è una leva di business: c’è necessità di persone che abbiano competenze tecnologiche, ma che al contempo conoscano l’azienda e costruiscano un sistema informativo semplice e funzionale al servizio del business» (“L’identificazione del candidato è una commodity, fondamentale è capirne le potenzialità e il cultural fit con l’azienda”).
Inscindibile dal digitale è anche l’innovazione in senso più ampio, che si sta affermando come una delle competenze più ricercate sul mercato del lavoro. «I profili emergenti saranno manager in grado di immaginare e sperimentare nuovi business model – chiosa Fabrizio D’Eredità, Consumer and digital practice consultant per Egon Zehnder – Ci aspettiamo una crescita di domanda per profili trasformatori come il Chief Customer Officer, Chief Growth Officer, Chief Data Officer, Chief Innovation Officer, oltre che per gli ormai più tradizionali Chief Transformation and Digital Officer. Profili con il radar sempre acceso, con una mentalità aperta e volta alla sperimentazione, ma anche con un grande pragmatismo e senso di business» (Egon Zehnder, quando la consulenza risponde ai cambiamenti della società e dell’impresa).
Soft skill e nuove attitudini
Il tema delle competenze necessarie a guidare la trasformazione – soprattutto in uno scenario così incerto e volatile – è uno dei più delicati per le imprese. Non è una novità: già il Rapporto The Future of Jobs del World Economic Forum, nel 2018, stimava che entro il 2022 oltre il 54% dei lavoratori avrebbe avuto bisogno di rivedere le proprie competenze o di acquisirne di nuove, con periodi di apprendimento dai sei mesi (35%), a un anno (9%) o di più (10%).
Le competenze di cui più si sente l’esigenza sono quelle digitali e iper-specialistiche, legate a industria 4.0, ma anche soft skill: il 94% dei responsabili delle risorse umane rileva infatti forti carenze nelle cosiddette competenze trasversali, in primis la leadership (fonte: indagine Mopi per il Sole 24 Ore).
Anche in questo caso la pandemia ha impresso forte impulso alle tendenze in atto, soprattutto sul fronte dei C levels. Un pensiero unanime tra tutti gli head hunter intervistati da HR Link: un approccio analitico o profonde competenze tecnologiche non bastano, ma devono essere accompagnati e guidati da elementi tipici di una cultura umanistica, fondamentali per gestire strutture sempre più orizzontali. «La performance di un manager di successo – afferma Umberto Bussolati dell’Orto, Consultant per Eric Salmon & Partners – è legata per l’80% alle sue soft skill, all’interpretazione del contesto. […] Sarà molto importante che un manager abbia, più che un bagaglio tecnico spiccato e specifico, capacità psicologiche e filosofiche che lo rendano in grado di guidare composizioni diverse. Io mi aspetto che i nuovi manager provengano da studi umanistici perché da lì escono persone più orientate alla comunicazione, che esprimono autorevolezza piuttosto che autorità: credo molto in questo aspetto» (“Executive search, il nuovo manager deve ascoltare, avere una cultura umanistica, sapere che la diversity è un valore, capire il contesto, trovare il suo successore”).
Dello stesso parere anche Giovanna Gallì, EMEA Financial Services Practice Leader in Spencer Stuart, in particolare per quanto riguarda i livelli apicali delle aziende: «Sul fronte degli Ad, l’emergenza Covid sta dimostrando che deve essere una figura in grado di muoversi anche in tempi di grande incertezza: caratteristica imprescindibile, a cui è collegata anche la capacità di decidere con tanti dati in mano ma poche informazioni. In questo senso emerge con forza quanto sia importante che l’Ad sappia ascoltare, avere un approccio empatico, leggere oltre le parole esplicite dalle persone e dei collaboratori. Deve essere in grado di portare avanti una comunicazione efficace, toccare le emozioni delle persone: questo elemento si rivela oggi più che mai significativo per la leadership. Infine, anche se può sembrare banale, deve dare l’esempio. La leadership by example, esserci fisicamente, mostrare coerenza tra i propri comportamenti e quello che si chiede alle persone: questa è una caratteristica che si sta rivelano ancora più importante in queste settimane» (“Executive search, capire le sfide del business in cui operano i clienti è una delle chiavi vincenti di questo mestiere”).
Gap generazionale e diversity
Uno dei compiti più impegnativi cui sono chiamati i leader di impresa è quello di gestire la convivenza di più generazioni – laddove persone che hanno pochi anni di differenza sono in realtà molto diverse tra loro – così come quello di guidare team di persone con elevati gradi di diversity al proprio interno.
Del resto la diversità – di età, di genere, di orientamento sessuale, di opinione, di formazione, di abilità, di caratteristiche fisiche, di provenienza geografica – rappresenta una ricchezza non solo sociale e culturale, ma anche economica. I team con un alto tasso di diversity sono il 20% più innovativi ed evitano più facilmente di prendere decisioni sbagliate (il 30% in meno). Se poi alla diversità si combina la strategia inclusiva, allora l’impresa raddoppia la propria possibilità di raggiungere i target finanziari, con flussi di cassa 2,3 volte più elevati di quelli delle aziende meno inclusive (fonte Deloitte). Sarà per questo che un terzo delle grandi imprese europee quotate ha introdotto in organico la figura del Chief diversity officer (fonte Russel Reynolds): a fronte di un rallentamento della crescita economica, diversità e inclusione la favoriscono.
Ne è convinto Riccardo Rossini, Global Consumer, Retail and Luxury goods practice consultant per Egon Zehnder: «Oggi abbiamo preso coscienza del fatto che tutto ciò che fino ad ora avevamo pianificato non lo è più. […] Al contempo sappiamo – visto che nessuno in questa situazione è stato (o sarà) in grado di dare risposte da solo – che le soluzioni arriveranno sempre più non da singoli individui ma da team, il più possibile diversificati. I nuovi leader dovranno ascoltare di più, sentire punti di vista diversi, portare al tavolo approcci e competenze di vario tipo e questo sarà un fattore determinante per incrementare la solidità di un comitato esecutivo: contro la fragilità delle organizzazioni occorrerà mettere insieme manager competenti ma che, soprattutto, sappiano lavorare bene assieme» (Egon Zehnder, quando la consulenza risponde ai cambiamenti della società e dell’impresa).
Il ruolo dell’Hr, tra smart working, change management e modelli agili
L’impatto forte e repentino dell’emergenza sanitaria ha imposto la necessità di ripensare le organizzazioni, supportando le persone nei cambiamenti in corso. Secondo i dati dell’Osservatorio Hr Innovation Practice, della School of management del Politecnico di Milano, in collaborazione con Doxa, le sfide più rilevanti sono state l’introduzione e il potenziamento dello smart working (64%), lo sviluppo di cultura e competenze digitali (45%), la gestione di riorganizzazioni aziendali e/o di ridimensionamento della forza lavoro (43%), l’evoluzione del modello organizzativo verso approcci più agili (35%). Uno scenario che ha messo al centro delle dinamiche aziendali la figura del Chief Hr Officer, accelerando il processo di trasformazione di questa figura in vero e proprio business partner per i board di direzione.
Gli head hunter intervistati da HR Link sono unanimi nel ritenere l’Hr director uno dei profili chiave nello scenario economico aperto dalla pandemia. «Figura piuttosto bistrattata negli ultimi anni, in queste settimane è stata molto rivalutata – continua Giovanna Gallì, di Spencer Stuart – Il suo ruolo, durante l’emergenza che stiamo vivendo, è di estrema vicinanza all’Ad. Ha dovuto trasformare velocemente l’azienda, riorganizzare il lavoro da remoto, portare avanti un’operazione di change management che va certamente molto al di là del solo dialogo con i sindacati, ma assume un’importanza centrale. Dopo anni in cui ci si è chiesto se fosse una figura strategica o meno, oggi possiamo dire che è forse il numero 2 in azienda».
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Alessandra Tosi, Energy, CleanTech and Executive Assessment and Development practices consultant di Egon Zehnder, che commenta: «Anche per i CHRO è un momento di grande trasformazione: lo avvertivamo già prima della crisi, ma la pandemia ha portato ancor più gli HR a svolgere un ruolo centrale. Sono stati fondamentali nella gestione dell’emergenza, adoperandosi per garantire la sicurezza non solo fisica ma anche psicologica delle persone e promuovendo modalità di lavoro nuove. […] Se in passato gli HR sono stati i custodi di processi e strutture organizzative, oggi i CHRO hanno l’ambizione di essere “motori” del cambiamento, capaci di pensare e agire come veri business partner. E il cambiamento, per avvenire, deve riguardare fattori hard e soft. Non basta conoscere i processi, è necessario comprendere a fondo le sfide del mercato, con un forte orientamento al problem solving. È altresì importante avere una profonda conoscenza della base talenti, capirne il potenziale, così da poter mediare tra le esigenze di sviluppo del singolo e quelle del business» (Egon Zehnder, quando la consulenza risponde ai cambiamenti della società e dell’impresa).
«Non si tornerà indietro sul lavoro agile, questa considerazione è unanime – continua Tosi – Anche quando rientreremo stabilmente in ufficio, la componente smart sarà sempre più importante, e il ruolo degli HR sarà quello di rendere veramente agile il lavoro a distanza, non solo attraverso strumenti che lo facilitino, ma sviluppando modalità e cultura diverse che assicurino il coinvolgimento, favorendo il wellbeing di individuo e organizzazione. Gli HR, anche se non esperti di information technology, dovranno comprendere le potenzialità della digitalizzazione, anche sul fronte dell’efficienza. Infine […] il Chief hr officer dovrà essere esempio e stimolo per il Leadership team su come motivare diverse generazioni al lavoro, e in particolare millennials, attraverso un approccio più empatico, che vada al cuore delle persone».
Ultima modifica il 03/10/2020