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A cura di A. Seminara (partecipante del Master in Giurista d'Impresa)
L’era dell’Internet e la rivoluzione digitale hanno reso di gran lunga più semplice e veloce lo scambio di dati e informazioni, estendendo la propria influenza anche all’ambito commerciale. Manifestazione di questo processo di globalizzazione informatica è rappresentata dai nomi a dominio, una nuova tipologia di “beni informatici” da un punto di vista giuridico classificabili come immateriali, che attribuiscono al proprio titolare un fascio di diritti a garanzia della proprietà industriale cui si riferiscono.
La categoria dei segni distintivi si è arricchita, negli ultimi decenni, di questa nuova figura il cui utilizzo è esponenzialmente cresciuto in funzione della digitalizzazione dell’economia. Parallelamente si è ampliata anche la loro rilevanza giuridica tanto che sono sempre più frequenti le controversie che i tribunali si trovano ad affrontare in tema di nomi a dominio (o anche domain names)1. Si tratta di segni distintivi tipici, che come tali hanno la finalità di distinguere l’imprenditore, i suoi prodotti e servizi, nell’ottica di tutelare la concorrenza, da un lato, e i consumatori, dall’altro.
Ciascun nome a dominio si compone essenzialmente di tre elementi:
- un suffisso “www”;
- il Second Level Domain (SLD);
- il Top Level Domain (TLD), che si distingue in nazionale, generico ed infrastrutturale allo scopo di indicare la provenienza geografica del sito2.
In passato è stata molto dibattuta la natura giuridica dei nomi a dominio tra coloro che ne sostenevano la funzione essenzialmente tecnica e coloro che, invece, ne sottolineavano la natura distintiva3.
- Secondo la prima teoria, il nome a dominio veniva equiparato in sostanza a un indirizzo telematico che, alla stregua di ogni altro indirizzo, permettesse di contraddistinguere la residenza di una persona o la sede di una società. Questo orientamento trovava il proprio fondamento nel fatto che il Regolamento 733/2002/CE, al considerando 3, riconoscesse la funzione tecnica dei nomi a dominio, sostenendo che essi “costituiscono parte integrante dell’infrastruttura dell’Internet e svolgono un ruolo di primo piano ai fini dell’interoperabilità del World Wide Web su scala mondiale”.
- La seconda teoria, invece, attribuiva ai nomi a dominio il carattere e il valore proprio dei segni distintivi dell’impresa, che svolgono funzioni di differenziazione, di pubblicità, di raccolta della clientela, di tutela della concorrenza e fondano la loro validità sul rispetto di determinati requisiti, quali la novità, l’uso, la notorietà, ma soprattutto la capacità distintiva.
Seppure in un primo periodo non riconosciuta, questa è oggi la tesi prevalente, che è stata non solo accolta dalla giurisprudenza unanime4, ma altresì corroborata dallo stesso legislatore, il quale ha equiparato il nome a dominio agli altri segni distintivi tipici (art. 22, D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30).
È proprio attraverso il c.d. Second Level Domain, un elemento scelto strategicamente dal richiedente e modificabile su sua richiesta, che si manifesta il carattere distintivo del nome a dominio e la conseguente valorizzazione economico-patrimoniale dello stesso. Il domain name in tal modo selezionato svolge un ruolo essenziale tanto nell’identificazione dell’impresa all’interno della rete web, consentendo all’imprenditore di posizionarsi su uno o più specifici mercati5, quanto nella riconoscibilità dei prodotti da parte dei consumatori, consentendo una maggiore commercializzazione degli stessi e un’ampia fidelizzazione della clientela. Viene, tuttavia, in rilievo un problema di coordinamento tra la tutela da riconoscere al nome a dominio ed eventuali diritti anteriori, quali ad esempio precedenti segni distintivi registrati che, in assenza di una disciplina legislativa specifica, viene prevalentemente risolto da dottrina e giurisprudenza in via interpretativa, equiparando il mondo virtuale dei nomi a dominio a quello fisico dei marchi e dei segni distintivi tipici6.
Le problematiche connesse alla registrazione di un host name discendono, se non in via esclusiva, dal meccanismo utilizzato per l’attribuzione dei nomi a dominio.
Tale meccanismo, infatti, si fonda su due principi:
- l’univocità del nome a dominio;
- il principio “first come, first served” secondo cui la scriminante per procedere alla registrazione del nome a dominio è quella della tempestività o priorità della richiesta7.
Ciò assume particolare rilevanza nei giudizi riguardanti i nomi a dominio, in considerazione della peculiarità di tale fattispecie. Mentre, infatti, nella legge marchi è prevista la possibilità di avere due segni distintivi identici, almeno in alcuni casi (settore merceologico differente o ambito territoriale diverso), in base al funzionamento di Internet, non possono esistere due domain names identici8. Pertanto, la registrazione di un Second Level Domain ispirato ad un marchio registrato precluderebbe il titolare del marchio del diritto di registrare successivamente un proprio sito con la medesima denominazione.
Poiché non è previsto un meccanismo di alert che avvisi del deposito (o dell’approvazione) di una domanda di registrazione di un segno distintivo, potenzialmente lesivo di quello preregistrato9, il titolare del marchio potrebbe non accorgersi tempestivamente dell’utilizzo in mala fede del nome associato al proprio marchio. Inoltre, l’azione a tutela dei diritti derivanti dal marchio è sostanzialmente rimessa alla discrezionalità e diligenza del titolare, pertanto, nell’ipotesi in cui il titolare del marchio non facesse valere il proprio diritto di esclusiva e non proponesse un’azione legale10 per riaffermare le sue ragioni ed inibire l’utilizzo di quello specifico nome a dominio, il titolare del sito web potrebbe farla franca.
Ciò ha portato negli anni ad un acquisto selvaggio di nomi a dominio più semplici da ricordare, perché costituiti da parole di uso comune o da marchi celebri, con conseguenti ricadute sul piano giuridico. La maggior parte delle controversie, infatti, vede gli interessi contrapposti di titolari di marchi registrati, spesso noti, e ditte di minori dimensioni e fama, che si sono avvalse di pratiche decettive, quali il “cybersquatting”, il “domain grabbing” e altre ipotesi di concorrenza sleale11, al fine di registrare tempestivamente il nome a dominio corrispondente al marchio notorio e ingenerare confusione nel pubblico dei consumatori12.
Ai sensi dell’articolo 2598 del codice civile, gli atti di concorrenza sleale si suddividono in tre grandi categorie:
- la concorrenza confusoria, in cui rientra la c.d. imitazione servile;
- la concorrenza denigratoria, che consiste nel diffondere notizie false idonee a screditare i prodotti dell’impresa concorrente;
- la concorrenza atipica, condotta direttamente o indirettamente mediante ogni altro mezzo non conforme ai principi di correttezza professionale, idoneo a danneggiare l’altrui azienda.
Nel caso di specie vengono in rilievo le pratiche di concorrenza confusoria, ovvero quegli atti di concorrenza sleale che si estrinsecano nell’utilizzare “nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, nell’imitare servilmente i prodotti di un concorrente o nel compiere atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente”. La confondibilità viene accertata attraverso un esame sintetico basato sull’impressione dell’uomo medio, dotato di ordinaria diligenza, circa la somiglianza dei segni o dell’aspetto dei prodotti13.
Occorre, peraltro, precisare che non costituisce comunque atto di concorrenza sleale la sola registrazione di un segno distintivo confondibile con quello altrui, che non sia contestualmente accompagnata dall’uso dello stesso14.
Al fine di integrare gli estremi di concorrenza sleale, poi, occorre accertare la sussistenza di due fondamentali presupposti soggettivi15:
- la qualità di imprenditore di entrambi i soggetti;
- la concorrenzialità, ovvero che ci sia tra le parti in questione un rapporto di concorrenza economica.
Sulla scorta di questa ricostruzione, è possibile rinvenire diverse sentenze che qualificano come atto di concorrenza sleale l’utilizzazione di un sito internet, che volutamente abbia come intestazione il nome con cui l’imprenditore di un marchio noto è conosciuto sul mercato, per la distribuzione di prodotti del medesimo tipo, così dando la falsa impressione che esista uno stretto collegamento tra i due, idoneo a sviare la clientela16.
Se è vero, però, che occorre ravvisare una certa affinità merceologica tra i prodotti e servizi dei due soggetti concorrenti, tale da creare un rischio confusorio agli occhi dei consumatori, è altrettanto vero che il marchio notorio gode di una tutela più ampia rispetto ai normali segni distintivi che si estende anche a prodotti non appartenenti alla medesima classe merceologia, relativamente ai quali non si porrebbe generalmente un rischio di confusione. La giurisprudenza, peraltro, ritiene che la registrazione di un nome a dominio che riproduca o contenga il marchio altrui costituisca una contraffazione del marchio, in quanto permette di ricollegare l’attività a quella del titolare del marchio, sfruttando la notorietà del segno e traendone un indebito vantaggio17. Tuttavia, in caso di lunga convivenza pacifica e in buona fede sul mercato di due segni simili, quali possono essere un marchio preregistrato e un successivo nome a dominio, questi non sono suscettibili di confusione, dunque, non si versa in un caso di concorrenza sleale. È quanto ha statuito il Tribunale di Milano, sottolineando come ciò determini una diffusa consapevolezza della differente provenienza imprenditoriale18.
In conclusione, emerge come il carattere convenzionale, e non legislativo, del sistema di attribuzione del nome a dominio, in combinato disposto con la ratio sottesa al disposto normativo dell’art. 2598 c.c19, imponga il rispetto dei principi generali di correttezza e lealtà, affinché nessuna impresa si avvantaggi nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, a scapito dell’impresa concorrente, mediante il ricorso a pratiche contrarie all’etica delle relazioni commerciali.
1 C. GALLI, I domain names nella giurisprudenza, MIlano, 2001; F. CANALI, La disciplina giuridica dei nomi di dominio, in Impresa, 2004.
2 B. SAETTA, Nomi a dominio e tutela, 2012, in https://brunosaetta.it; P. SPADA, Domain names e dominio dei nomi, in Rivista di Diitto Civile, 2000, I.
3 G. GARGIULO, L’ultimo nato tra i segni distintivi: il nome a dominio, in Diritto Industriale n. 3/2015, p. 300 e ss.
4 Una per tutte, Cass. Civ., Sez I, 18 agosto 2017, n. 20189 riconosce la capacità distintiva dei nomi a dominio.
5 C. A. GIUSTI, I nomi a dominio: un nuovo segno distintivo?, 2016, in http://www.dimt.it.
6 G. ARANGUENA, Nome a dominio e tutela del marchio verso la social property: slealtà commerciale e il nuovo enforcement del diritto della concorrenza e dei consumatori, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2013, 6.
7 Il Tribunale di Roma, 2 agosto 1997, ha negato a regola del first come, first served nel caso di violazione di un marchio perpetrata attraverso il suo impiego quale domain name.
8 N. LASORSA, Domain name, in G. VACIAGO (a cura di), Internet e responsabilità giuridiche. Lineamenti, materiali e formulari in tema di diritto d’autore, nomi a dominio, Pubblica Amministrazione, privacy, reati informatici, Piacenza, 2002, p. 119.
9 A meno di non controllare frequentemente il bollettino marchi pubblicato dall’UIBM ovvero di affidarsi ad una società esterna per l’attivazione di un servizio di sorveglianza, se la lesione scaturisce dalla registrazione di un nuovo marchio. Allo stesso modo qualora la lesione derivi dalla registrazione di un nome a dominio, lesivo di un marchio preregistrato, è il titolare di quest’ultimo a doversi attivare tanto per le attività di controllo quanto per quelle di tutela.
10 Giudiziale: tutela cautelare, tutela ordinaria o azione di rivendica, per provare la mala fede del titolare facendo valere la nullità assoluta ab origine del segno distintivo o la nullità relativa, qualora appunto siano stati violati diritti altrui anteriori; stragiudiziale per tentare una composizione amichevole della controversia, qualora si provveda mediante lettera di diffida (cease-and-desist letter) o si richieda l’applicazione di misure cautelari (inibitoria, sequestro, ordine di ritiro). In alternativa, la Registration Authority Italiana ha previsto una procedura di riassegnazione ed un arbitrato irrituale.
11 E. TOSI, “Domain Grabbing”, “Linking” e “framing” e utilizzo illecito di “meta tag” nella giurisprudenza italiana: pratiche confusorie online “vecchie” e nuove tra contraffazione di marchio e concorrenza sleale, in Rivista di Diritto Industriale, 2002, p. 371 e ss.
Si parla di cybersquatting nei casi in cui si proceda alla registrazione di un segno distintivo altrui dotato di rinomanza, con il fine ultimo di trasferirlo nuovamente al titolare previo corrispettivo normalmente molto più elevato di quanto corrisposto per la registrazione. La pratica del domain grabbing consiste più semplicemente nella volontà di appropriarsi di un segno distintivo noto, appartenente a terzi, impedendo la registrazione dello stesso al titolare ed eventualmente rivendendolo a terzi allo scopo di ottenere un ingente profitto. Esistono anche altri fenomeni di concorrenza sleale, quali il typesquatting o dirottamento URL, che si verifica in presenza di somiglianza fra nomi a dominio appartenenti a due imprese diverse, di cui uno sia relativo a un marchio notorio; il framing, che permette di collegare il primo sito ad un sito altrui ma di visualizzare la pagina del secondo sito (il frame) all’interno della pagina del primo sito; il surface linking, collegamento ipertestuale che permette di passare da un sito alla home page di un altro sito (del marchio notorio); ecc.
12 È questo il caso deciso dalla IX Sez. del Tribunale Civile di Roma, con ordinanza 12 giugno 2012, con cui è stato inibito alla società “Fenicius Llc” l’uso del nome a dominio “mediaset.com” allo scopo di commercializzare dispositivi di salvataggio di dati multimediali (in inglese appunto media set), ravvisandosi con evidenza l’intento di agganciamento al noto marchio “Mediaset”.
13 App. Milano, 14 maggio 2004, in Foro.it, 2004, I, c. 2491.
14 Tribunale di Udine, 31 maggio 1993, in Rivista di Diritto Industriale, 1995, II, 3; Tribunale di Roma, 20 marzo 1976, in
GADI, 1976, 815.
15 AULETTA, MANGINI, Della disciplina della concorrenza, in Commentario del codice civile, (a cura di) SCIALOJA, BRANCA, Zanichelli, 1987, 216; SGROI, Nuova rassegna di giurisprudenza sul codice civile, Giuffrè, 1998, 991; G. GHIDINI, Della concorrenza sleale (artt. 2598-2601), in Il codice civile, Commentario, (a cura di) SCHLESINGER, Giuffrè, 1991, 53 e ss.
16 Vedi Tribunale di Roma, 23 agosto 2000; Tribunale di Crema, 28 luglio 2000.
17 Tribunale di Roma 2 agosto 1997, in Foro.it, 1998, I, c. 923; Tribunale di Verona 25 maggio 1999, in Foro.it, I, c. 3061.
18 Tribunale di Milano, sentenza n. 5368/2019: “In giurisprudenza, da tempo si è consolidata la convinzione che nel sistema dei segni distintivi esista un generale principio di preclusione per coesistenza, per il quale il titolare di un marchio anteriore non può chiedere l’annullamento di un marchio posteriore, o opporsi al suo uso, laddove l’utilizzazione simultanea e di lunga durata è tale da non pregiudicare più la funzione del marchio preregistrato, consistente nel garantire ai consumatori l’origine dei prodotti o servizi”.
19 Come rilevato da Cass. Civ., Sez. I, 4 luglio 1985, n. 4029.
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Ultima modifica il 12/04/2021
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